L'eredità di Aldo Moro la conferma dei valori e dei principi dei popolari e liberaldemocratici
Postato da admin [15/05/2018 21:33]
Seminario di studio - Mestre Venezia
9 maggio h.16 Russott Hotel
L'eredità
politica di Aldo Moro
la
conferma dei valori e dei principi
dei
popolari e liberaldemocratici
L'attualità del pensiero politico di Moro
(Calogero MANNINO)
Sul
corsera del 31 marzo u.s. Ernesto Galli della Loggia scriveva un articolo
dal
titolo estremamente significativo:
Inutile rimpiangere il disegno di Moro
non aveva futuro. Si affidava ai partiti che però erano in declino.
Ed a
principale pezza di appoggio di questo 'giudizio' citava la critica a Moro di
Pietro Scoppola : " implicava
inevitabilmente la necessità di subordinare ogni iniziativa, ognidecisione ed ogni concreto operare a logiche
di partito che ben poco avevano a che fare con i problemi nuovi del
paese:"
Ancora
Galli della Loggia richiamandosi a Scoppola dice: "ciò rendeva radicalmente inadeguato il disegno di Moro fosse il
fatto che le lacerazioni politiche prodotte dalla modernità nel corpo della
società italiana andavanomettendo in
crisi proprio i partiti, lo strumento partito, la sua cultura la sua struttura
il suo struttura il suo rapporto con i cittadini, sempre meno caratterizzabili
come militanti"
Stando
a questi giudizi, peraltro diffusi,
prevalendo
la critica, quando non la demonizzazione dei partiti, della Repubblica dei
partiti '
il sacrificio della vita di Aldo Moro sarebbe
valutato del tutto inutile.
Sotto
un certo aspetto verrebbe la tentazione di convenirne, ma per altre ragioni. (
Intanto siamo passati dalla Repubblica dei partiti alla Repubblica dei partiti
personali)
Dopo il 9 maggio, (ritrovamento del cadavere
di Moro in via Caetani) il problema del partito comunista,quello che con felice formula Alberto Ronchey
aveva definito"il fattore K",
aveva perduto ogni drammaticità e si era andato consumando, come cera al
sole,lentamentesino al crollo del muro di Berlino, 1989.
Edil partito comunista, ribattezzato alla
Bolognina, sarà, invece, il protagonista beneficiario del 1992.
l'anno
" del processo in piazza " che Moro, con coraggio e lucidità
profetica, aveva tentatodi
'esorcizzare' con un mirabile discorso parlamentare in occasione della messa in
stato di accusa
degli
on.li Tanassi e Luigi Gui.
In
quella occasione Moro aveva provato a respingere il disegno ,già evidente
allora, di criminalizzazione della politica. E l'attacco alla DC.
"
Non accettiamo di essere considerati dei
corrotti, perchè non è vero........Abbiamo certo commesso degli errori politici,
ma le nostre grandi scelte sono state di libertà e di progresso ed hanno avuto
un respiro storico....Certo un'opera trentennale per la quale si realizza una
grande trasformazione morale, sociale economica, e politica , ha
necessariamente delle scorie, determina contraccolpi, genera squilibri che
devono essere risanati, tenendo conto delle ragioni per le quali esse si sono
verificati.....ma non significa che tuttofosse sbagliato, ma solo che vi sono stati errori ed eccessi, in
qualche misura inevitabili, in questo processo storico......
E come fruttodel nostro, come si dice, regime è la più
alta e la più ampia esperienza di libertà che l'Italia abbia mai vissuto nella
sua storia. Un esperienza di libertà capace di comprendere e valorizzare , sempre che non si ricorra alla
violenza, qualsiasi fermento critico, qualsiasi vitale ragione di
contestazione....e queste cose non ci sono state strappate. Noi le abbiamo
rese, con una nostra decisione, possibili ed in certo senso garantite.
Per tutte queste ragioni, onorevoli
colleghi, che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che
noi con ci faremo processare."
Era
il 1977.
Questa
premonizione solo per poco tempo : perchè il 9 marzo1978 Moro veniva fatto
prigioniero, uccisi gli uomini della sua scorta, e dopo 55 giorni tragici barbaramente
ucciso.
Ritengo
che nessuna ricostruzione del pensiero politico di Moro possa farsi
prescindendo da questo tragico passaggio.
Marco
Damilano, per contro, in un libro, molto bello, di recente pubblicato "
UnAtomo diverità " titolo dato dauna frase di Aldo Moro: "datemi un milione di voti e toglietemi un
atomo di verità e io sarò perdente."ed ancora il titolo del libro :
"Che cosa ha perso l'Italia con la
morte di Moro. Perchè i tragici fatti
del 1978spiegano il nostro
presente. E il nostro futuro."
La
tesi di Damilano parte dalla memoria "sempre che non si ricorra alla violenza"
Nel
1992 terrorismo mafioso e rivoluzione giudiziariaverificavano la profezia
Marco Damilano,coglie il nesso che lega l'assassinio di
Moro, all'esito del 1992, fino alla crisi politico-istituzionale in corso,
permette di contestare a Galli della Loggia l'ignoranza della linea che a
partire dal 1968 era andato svolgendo Moro, e che si incentrava - nei suoi
discorsi, articoli e scritti diversi - sul nesso intricato della crisi della
società italiana, dello scontro generazionale che si era aperto,
dell'ideologizzazione esasperata, dei profondi mutamenti delle posizioni
culturali, e quindi della messa in discussione dei partiti e segnatamente della
DC, quale era al momento.
E
Moro, poi, riconduceva tutte le sue analisi alla strategia che non era dell'attenzione al partito comunista,
senza essere prima dell'attenzione alla società italiana.
In
questa ottica rimaneva fermo il criterio fondamentale della politica che da De Gasperi
giungeva alle esperienzeE cioè quello della garanzia democratica.
Moro
- quando era maturato il momento delle responsabilità di guida e direzione
della DC - nelle due fasi distinte delle quali sarà protagonista -
centro-sinistra e solidarietà nazionale - aveva considerato - -
una costante della storia d'Italia :
l'integrazione, via via, nel corso dei tempi, di una larga parte della società
italiana che si era venuta a trovare fuori dalle stesse istituzioni.
Nel
primo dopoguerra DeGasperi aveva affrontato questo problema con la coalizione
maggiore possibile delle forze democratiche, avviando con la ricostruzione del
paese distrutto dalla guerra e lo sviluppo di un economia moderna, che
caratterizzerà l'irripetibile decenni 1953/63 detto "il miracolo
economico"
E De
Gasperi aveva tenuto sempre saldo il quadro delle istituzioni democratiche
collocando, poi l'Italia, Nazione sconfitta, al tavolo della pace nella
prospettiva della solidarietà atlantica ed occidentale, oltretutto come scelta
di civiltà rispetto al blocco sovietico.
De
Gasperi, e con lui Scelba, sosterra l'urto - non soltanto della piazza e degli
strascichi della violenza sempre vivi di alcuni segmenti della resistenza rossa
- ma anche degli autorevoli e fermi inviti a mettere 'fuori legge' sia i
comunisti che i nostalgici del fascismo, sempre
nei termini dei principi e delle regole democratiche.
La
linea della fermezza, dei Governi DeGasperi dal 47 in poi, è quella che si
affida alla capacità della democrazia, delle sue regole e del suo spirito, di
coinvolgere, convincere ed integrare.
La
sfida al comunismo - forte nei toni e nella sostanza - era stata condotta sul
piano della democrazia e delle sue regole.
Ed è
su questo piano, con il concorso di circostanze storiche come la rivolta
ungherese del 1956 - che, poi veniva vinta la prima sfidaantagonistica, quella con il partito
socialista italiano, che nel 46/48 aveva scelto il frontismo, e che invece
ripudierà al Congresso di Venezia del 1957
La
formula centrista dell'alleanza dei partiti democratici era entrata in crisi
con le elezioni politiche del 1953.
Una
lunga e difficile transizione aveva portato alla soglia del 1960, affrontando
anche una fase drammatica come quella rappresentata dal Governo Tambroni, al
primo Governo di centro-sinistra presieduto da Fanfani con l'appoggio esterno
del PSI. Convergenze parallele - erano statedefinite.
Era
statoil traguardo chela DC guidata da Moro, in continuità con
DeGasperi, si era dato per il primario obbiettivo dell'allargamento della base
popolare dello Stato Democratico.
Era
stata una Scelta travagliata e difficile. Che aveva trovato due linee di
difficoltà se non di impedimento, quella della gerarchia della Chiesa Cattolica
e quella degli alleati dell'Alleanza Atlantica.
Erano
intervenute, però, due circostanze favorevoli : la presidenza negli USA di J
Kennedy, ed il Pontificato di Giovanni XXIII.
E Moro aveva preparato il partito, e con il
partito ed attraverso il partito ,la società italiana, che, sospinta dal ritmo
sostenuto ed accelerato dello sviluppo economico, aveva visto cambiamenti e
trasformazioni di ordine sociale e culturale molto complessi, ad affrontare una
fase riformatrice, che si era rivelata ,poi, allo stato dei fatti
contraddittoria e difficile.
Moro
si era mosso dalla lezione di DeGasperi, che aveva vissuto dopo le elezioni del
1919 il dramma degli ostacoli ad integrare nello Stato da una parte le forze
cattoliche, liberate dal non expedit, e che avevano trovato espressione nel
partito popolare, e dall'altra, le forze del socialismo, che raccoglievano
larga parte delle masse lavoratrici.
L'impedimento
aveva generato il fascismo,
come vera e propria rottura dello stesso Stato
liberale e quindi dell'evoluzione democratica della società nazionale:
Proprio
nei tre Convegni di San Pellegrino questa costante storica, analizzata in
profondità con relazioni profonde , era stata elevata a ragione strategica
della politica di centro-sinistra che si preparava.
Il
processo risorgimentale incompiuto con l'esclusione dei cattolici, e poi delle
masse lavoratrici, doveva trovare un suo ulteriore percorso nell'Unificazione
civile ed economica dell'Italia.
Il
centro-sinistra con le relazioni a S.Pellegrino, in particolare, di Gabriele De
Rosa, Pasquale Saraceno, Mario Ferrari Aggradi, doveva preparare e gestire una
nuova fase dello sviluppo ponendo al centro l'integrazione del Mezzogiorno
d'Italia.
Così
l'allargamento della base delle forze democratiche impegnate nell'azione di
governo doveva rispondere ad un grande disegno dal respiro storico-
Quindi
non un'operazione puramente parlamentare e di governo, ma un'operazione
politica con un ambizioso progetto, dall'ampio respiro storico.
Certo
gli esitidi ogni progetto politico
fanno i conti con il corso delle cose, quali si svolgono nel concreto
L'arrivo
del PSI nell'area di governo aveva presentato non pochi problemi.
Il PSI aveva portato una cultura conflittuale
con l'economia privata: la nazionalizzazione dell'energia elettrica, anche per
le modalità seguite non era stata scelta molto felice.Ben presto il ritmo della crescita economica,
con i connessi processi di redistribuzione delle risorse, aveva cozzato contro
il problema dei conti pubblici, e poi, dell'inflazione.
Ma
non soltanto questo e non era stato poco;dalla scuola alla sanità alla politica urbanistica scelte di
modernizzazione e di cambiamento si erano accompagnate ad effetti non positivi
e contraddittori sul piano del consenso sociale.
Il
condizionamento del PCI e più ancora delle aree culturali sulle quali il PCI
esercitava un'egemonia, avevano spinto in una direzione massimalistica, che
riguardata oggi può essere definita - al modo di Lenin - infantilistica.
Sopraggiunto
il 68, il cui vento aveva fortemente spirato anche altrove, dagli USA alla Francia
- la società italiana aveva perduto ogni forma e misura rapportabile alla
storia da cui veniva.
Il
mondo cattolico dopo la complessa stagione conciliare aveva assunto forme e
modalità proprie della contestazione, ormai di moda.
Così
i mondi sociali. Chi può non ricordare un autorevole leader della CISL con il
berretto di Lenin in capo guidare gli scioperi - talvolta violenti - che
paralizzavano sovente le piazze d'Italia.
E
nel mentre episodi forti del terrorismo avevano colpito una volta Milano, una
volta Brescia e poi Bologna e l'Italicus.
Così
per un lungo periodo che potremmo datare dal 1964 sino al 1978.
Nel
corso di questi anni l'azione politica di Moro non si era smarrita. Anzi ad
ogni punto o passaggio si era sviluppata con analisi profonde, talvolta
sofferte e ricche di pathos, sempre lucide ed aperte all'intelligenza dei
fatti.
Aveva cercato, in ogni occasione,di far comprendere che: " in verità, la democrazia, quando rispetti veramente le sue
leggi, ha svolgimenti e risultati ineccepibili. Contrapporvi, soggettivamente,
la violenza, significa sostituire con la forza l'unico principio razionale
secondo il quale si compie l'esperienza sociale.." (articolo sul
Giorno maggio 1977)
C'era
sempre stato questo aspetto sostanziale e decisivo del magistero di Moro :
educare alla democrazia con la democrazia:
Come democratici, e come democratici-cristiani,
fedeli al patrimonio ideale del nostro partito, rifiutiamo la violenza e ci
impegniamo a fare quello che abbiamo sempre fatto, ad andare fra la gente a far
comprendere, ancora una volta ,il significato di deviazione grave che c'è in
ogni manifestazione di intolleranza in ogni tentativo di piegare con la forza
quello che non si piega con la libertà.........(..) e do avere fatto valere
dell'aggregazione del consenso, del voto ed avendo costruito su queste basi un
PAESE NUOVO....."
(
discorso di Benevento 18 nov.1977)
E'
un discorso da politico, ma apostolo di educazione democratica, che scruta i
segni dei tempi e con procedere pensoso ne assume una consapevolezza rara e fine
"
tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai: Ilvorticoso succedersi delle rivendicazioni,
la sensazione che storture , ingiustizie, zone d'ombra , condizione di
insufficiente dignità e di insufficiente potere non siano ulteriormente
tollerabili, l'ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze, all'intera
umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare
non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto snodale della
storia non si riconoscono nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono
tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso da cui nasce una
nuova umanità,....un nuovo modo di essere nella condizione umana." (
Cons.Naz.DC 21 nov.1968.)
Ora
ripercorrendo la lettura di tutti i discorsi, gli articoli gli scritti del
decennio 1968/78 cogliamo l'aspetto fondamentale della sua azione politica come
pensiero, come ricerca degli aspetti più profondi, muovendo certamente da
quelli fenomenologici per andare più a fondo nella comprensione dei moti di
un'umanità nuova che Egli non giudica moralisticamente, ma che valuta per tutti
i significati e le conseguenze possibili. " Questo paese non si salverà,la stagione dei diritti e delle libertà si
rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere"
E'
il cogliere la profonda crisi che attraversa la società e non soltanto quella
italiana. Viene dal 68 ed ha raggiunto ai nostri giorni - ma lo sguardo acuto
di Moro - lo ha colto negli esiti sconcertanti per il dominio di tutte le
possibili forme dell'edonismo, sino alla volgarità, o del radicalismo, come
ripercussione di forme tardo-leninistiche.
Moro
non è un politologo.
Nella
storia della DC, conosceremo altre voci che si eserciteranno nella politologia.
Non
è un ideologo. Non haschemi
prestabiliti e deterministici, supera, sempre ogni formulazione empirica, per
scendere a fondo nelle cose, il cui flusso determina la storia.
E'
un filosofo: Ragiona con il metodo socratico per pervenire'
all'intelligenzadei fatti e delle
cose' e sollecitare la maturazione di una consapevolezza non sociologica -
nel senso dottrinario - ma più largamente antropologica.
Oggi
vi è anche chi ravvisa nei suoi scritti e discorsi una sottile e pur visibile
trama teologica.
Moro
è un Cattolico dalla fede profondamente vissuta.
Quindi
non per semplice pratica di preghiera e devozione. Che pure ha lasciato
immagini significative. (Inginocchiato in un banco nel fondo della Chiesa, con
la fronte inclinata sulla mano: Una vera e propria icona religiosa) Per Moro il cristiano doveva essere uomo
politico non da cristiano, ma in quanto tale.
Moro
è un pensatore Cattolico. Ha letto ma intensamente riflettuto sugli scritti di
Jacques Maritain e di Emmanuel Mounier. Ha compreso ed elaborato la dottrina
personalistica. Ha conquistato anche per via dei suoi studi
filosofico-giuridico, in modo particolare ed originale, il concetto di persona
umana, che supera ogni nozione di puro individuo - e si riporta ad una dignità
superiore, e centrale anche rispetto alla Stato. L'incontro con la filosofia di
Gabriel Marcel gli ha fatto conquistare la dimensione spirituale della creatura
umana, che nonostante l'inoggettivabilità sua propria, non è qualcosa di
astratto dal mondo materiale, ma è incarnata nella realtà storica e si esplica
solo attraverso un'attività pratica concreta.E' l'aspetto non compreso nel
tempo della Sua prigionia che si evidenzia nelle sue lettere, che, anzi, furono
equivocate sino al limite del dubbio sulla tenuta del Suo equilibrio
psicologico-intellettuale.
L'orizzonte
del suo pensiero,attraverso gli
approfondimenti tomistici, è S Agostino,
C'è
una narrazione diffusa e talvolta stantiasul pessimismo di Moro. Ma è quello che viene dalla riflessione che da S
Agostino conduce a Pascal. L'uomo libero, ma fragile esposto al vento della
storia, quella personale e quella comune nella quale è inserito. La sua
riflessione filosofica e giuridica lo condurrà ad una moderna concezione dello
Stato,che supera il formalismo di Kelsen, rifiuta la concezione dello Stato
etico ed hegeliano e respinge la dottrina 'teologica'
di Carl Schmitt. -
" S'intende bene che lo Stato al quale
lavorano i Cattolici ..è uno Stato libero e giusto , uno Stato che conosca e
riconosca i propri limiti, che sappia di essere ,la rivendicazione costante e
vigorosa di tutte le libere associazioni umane sono i segni di questa complessa
visione....La preoccupazione parte, siapure
fornita di una speciale funzione , in un complesso travaglio sociale che impegna
in diverse forme ed in diverse direzioni l'attività umana:......la
considerazione per la Famiglia, il favore per le autonomie locali che sono
presidio di libertà.......la preoccupazione cristiana di di salvare la società
nelle sue varie e ricche espressionidal
monopolio statale si salda intimamente con la difesa ed il potenziamento dello
Stato:...."
(da
Studium marzo 1947)
Norberto
Bobbio, a proposito di concezione di Moro dello Stato ne segnalerà il pathos religioso.
E'
quella che garantisce la funzione dello stesso la garanzia della libertà e del
potere della libertà degli uomini. E proporrà sempre - durante il suo tempo-
l'ineliminabile ed essenziale funzione del partito "" il partito deve aderire alla realtà, per orientarla
e plasmarla secondo la sua intuizione, alla luce dei suoi ideali umani: Il
partito è un Ripeterà, poi, ""che
la funzione del partito è alta deve " associare e guidare""articolazione della società in direzione
dello Stato.
Funzione
costituzionale quella del partito, strumento della democrazia. Questo sin dalle
discussioni alla Assemblea Costituente.
Durante
la quale Moro, aveva frequentato la Comunità del Porcellino, dove aveva trovato
un rapporto di amicizia con Giorgio LaPira. Erano entrambi domenicani del Terzo
Ordine, avendo assunto Moro il nome di fra Gregorio.
E' stata Questa dimensione della sua
personalità, estremamente complessa partecipe di tutti i moti, gli accenti
dellacultura del tempo attraversato,
con una sensibilità ed una intelligenza, che gli aveva permesso, senza
imbattersi in confusioni e pasticci, un confronto aperto e non esteriore con
gli indirizzidella cultura del tempo,
particolarmente con il pensiero di Benedetto Croce e la sua particolare
concezione del liberalismo.
Le
analisi, le riflessioni, i discorsi, le prese di posizione assunte in
particolare nel decennio 67/68 - 77/78 non si erano limitate a scandagliare le
posizioni tattiche delle varie forze politiche nel quadrante politico
contingente, ma avevano approfondito le relazioni con gli sviluppi, complessi e
contraddittori della società italiana, in uno al contesto internazionale.
Basterebbe ricordare tutta la sua attività di Ministro degli Esteri.
Si
era reso conto e si chiedeva sovente dei mutamenti profondi e convulsi dei
quali registra gli aspetti positivi ma anche tutte le problematicità.
In
particolare per la ricaduta sulla stessa linea politica della DC vorrei
ricordareil passaggio che aveva
condotto dall'approvazionedella legge
sul divorzio al referendum del 74 gestito e vissuto con atteggiamento pensoso e
problematico.
Iltema del rapporto con la Chiesa, in una
stagione nella quale era avanzata la secolarizzazione gli aveva fatto
rimeditare l'esperienza ed il pensiero di Luigi Sturzo.
Già
nel 1959, alla vigilia dell'avvio del centro-sinistra- quando uno dei problemi
più ardui ed improbi si era presentato, quello dell'autonomia del partito
politico da vincoli confessionali, Moro aveva promossoil convegno all'Eliseo su Sturzo- che alla
dominante linea iniziativista (iniziativa
democratica era la corrente che aveva ereditato gli esiti finali del
dossettismo coniugandoli con una giovane (allora) generazione degasperiana) sembrava un fuori tempo.Per Moro invece aveva rappresentato il
recupero di una lezione essenziale. Che si consoliderà e tornerà nella sua
riflessione,intanto già nei temi della discussione del Convegno di S.Pellegrino
e più in avanti nel tempo, quando la proposta "popolarismo" di Sturzo
sarà colta come lo sbocco finale del travagliato processo di accostamento
finale del PCI al quadro democratico e che implicherà il rinnovamento e
riposizionamento del partito che era stataDC nello schieramento politico.
Dalla
riflessione di Sturzo aveva colto gli elementi per superare ogni forma di integralismo
o di indugio sugli eviti integralistici dell'esperienza dossettiana.
Ma
da Dossetti con il quale aveva durante la fase costituente gestito un rapporto
ravvicinato che aveva condotto alla formulazione e poi approvazione di alcuni
articoli della Costituzione ( quello sulla Famiglia, quello sulla scelta della
pace art.4 - che avrà un segno permanente negli indirizzi della politica
estera)
aveva
con riserbo e discrezione dissentito sulla valutazione che " il comunismo avrebbe vinto "
Su
questa valutazione Dossetti aveva segna il suo ritiro dalla vita pubblica.
Moro
su questa valutazione, invece, si era misurato con la sua azione politica nel
tempo che aveva affrontato.
Quando
il centro-sinistra aveva esaurito i margini della propria vitalità ( la crisi
economica - la crisi petrolifera - il quadro sociale fortemente tumultuoso è il
caso di dire - i segni della possibile degenerazione con il terrorismo)
Egli,
però, nel discorso al XIII Congresso della DC nel 1976 ne aveva rivendicato i
meriti: " con la formula del
centro-sinistra il paese è cresciuto e la democrazia si è sviluppata e
consolidata Moro che sin dal 1968 aveva posto il tema della strategia
dell'attenzione al PCI " dopo aveva affrontato sotto un aspetto -
politicamente - più cogente l'ordine di un possibile rapporto di
collaborazione. Non più confronto, ma convergenza sul piano governativo.
"
E' questa flessibilità attenta ed
anticipatrice, che ha fatto in questo trentennio il nostro partito così capace
di comprendere, far proprie e guidare le spinte evolutive della nostra società.
"
Il
risultato elettorale del 1976 - oggi spesso ricordato per la ricorrenza di una
precisa circostanza aveva presentato due vincitori.
O meglio nessun vincitore, come oggi.
Ed i
due contendenti - così avevano affrontato la campagna elettorale - si erano
trovati a dover concordare quelle scelte che avevano portato ai due governi
Andreotti del 1976 e del 1978.
Berlinguer
aveva preparato questa ipotesi, poi concretizzatasi, con i tresaggi su Rinascita, con l'ultimo dei quali ,
in particolare, aveva avanzato la linea del compromesso storico.
Tutta
la vicenda politica ,però, per molti soggetti della politica (dell'opinione
pubblica, della stampa, delle strutture parallele) veniva rappresentata con il
segno del cedimento e del rischio democratico.
In
Parlamento non vi erano resistenze ed opposizioni politiche. Non vi era più il
PSI disponibile a responsabilità di governo da quando la segreteria DeMartino
aveva portato avanti la linea "
degli equilibri più avanzati"
La
resistenza e l'opposizione erano fuori dal Parlamento. Nell'incrocio torbido di
segmenti degli apparati dello Stato, di organizzazioni parallele la cui
giustificazione era stata data come misura di difesa dal comunismo e dall'URSS.
Ed il fiorire di organizzazioni di contestazione e poi di vero e proprio
terrorismo.
Moro
sin dal 1964 aveva dovuto affrontare questo complessivo problema della
resistenza - antistituzionale - alla politica. Basterà ricordare il piano Solo,
o i molteplici attacchi terroristici allo Stato.
Moro
aveva cercato di affrontare il groviglio dei problemi con la razionalità e
lucidità che gli erano propri.
In
nessun passaggio dei suoi discorsi era mai stata indicata la prospettiva
dell'alleanza con il PCI come alleanza definitiva. Era una fase transitoria
quella che Egli aveva proposto.
""
siamo chiamati ora e qui ....."
Il
cumulo dei problemi non consente semplificazioni: Aveva la consapevolezza che
la DC presentava elementi forti di stanchezza, ripiegata nel correntismo e nel
clientelismo,
Aveva una classe dirigente che richiedeva di
essere ricambiata, mentre nella società era cresciuta l'esigenza di un ricambio
generazionale,
Nel
cumulo dei problemi, rinnovamento del partito, rinnovamento dello Stato,
ripresa dello sviluppo e lotta alll'inflazione, il ridursi della forza della
DC, la mancanza di una maggioranza capace di assicurare la governabilità.
L'incalzare del partito comunista forte dei suoi cambiamenti. Da tempo la
borghesia italiana lo aveva accarezzato. a parte la militanza della cultura e
della parte più rilevante degli organi di informazione.
Egli
aveva visto il baratro che si era aperto davanti al paese se non fosse stata
avviata una politica di ricomposizione del quadro democratico.
IL
sistema di libertà e la democrazia come istituzione della libertà e del potere
dei cittadini, era l'orizzonte permanente al quale tendere.
Si
era accorto delle debolezze che venivano da tante parti.
E nelle lettere dal carcere, poi,le esporra', a volte con forti accenti
polemici.
Anche
verso il suo partito, la Democrazia Cristiana che "non gli stava dietro."
Quel
plumbeo atteggiamento di pura remissione a quel che stabilisce il partito
comunista, quando la parola di Pecchioli era quella che decideva, anche perche
coincideva con le finalità del campo avverso. E' stato questo il paradosso di
questa tragica storia.
L'affermazione
decisa di Pecchioli dopo il 16 marzo : per
noi è già morto. Non si può trattare.
Questo
paradosso ha trovato la sua immagine iconica ed ironica nel monumento che è
stato realizzato a Maglie, Moro è stato rappresentato con il giornale l'Unità
in tasca. Come se avesse cambiato partito.
Moro
per il suo realismo disincantato era sensibile all'utopia ma non sfuggiva la
realtà.
Gli
era stato chiaro che al partito comunista,
che maturasse tutte le condizioni per diventare partito di governo di uno Stato
collocato nell'Occidente, Alleanza Atlantica, MECe tutte le altre istituzioni,e quindi si
avviasse ad una profonda trasformazione e mutazione identitaria si dovesse contrapporre
un partito di tipo popolare, le cui linee lungo tutti i discorsi del decennio
trascorso aveva delineato: " si, la
Democrazia Cristiana deve essere ricostituita, ...che essa rinasca libera
dall'arroganza del potere "
( da
un articolo de Il Giorno,13 maggio 1977) Non
c'è nelle (mie) osservazioni alcun segno di disperazione e di sfiducia. Siamo
in tempo per cambiare,se ci pieghiamo a
cogliere gli insegnamenti delle cose ed ad ascoltare la voce della
coscienza.....C'è scavare ancora e tanto nella direzione della libertà che non
è pienamente affermata.ma è insieme necessario volere appassionatamente la
tenuta dello Stato che abbia come base la dignità, la serietà e la
responsabilità della persona
.E
non si può esigere che lo Statoadempia ai propri compiti, se tutti non
fanno il loro dovere:"
Ma il
9 maggio 1978 la sua vita è stata stroncata.
Tragicamente.
E' così doloroso e sconvolgente apprendere, oggi, che a "via Fani c'erano
anche le brigate rosse"
e
che il suo assassinio forse (?) non è stato compiuto da un brigatista ma da un
ndraghentista. Queste sembrerebbero le acquisizioni della II^ Commissione Moro.
Tutto
l'epistolario dal carcere è il suo testamento politico, ma anche umano.
E' la Sua ultima lezione politica, ma anche e sopratutto filosofica
e morale.
Moro
non è stato mai un moralista.
E'
stato un lucido osservatore delle pieghe che andavano segnando la fisionomia
della società italiana e della stessa politica.
Nelle
Sue analisi c'è il patrimonio di pensiero al quale attingere, ancora oggi.
Il
fondamento - in ogni tempo della sua vita ed azione politica - è sempre la
" persona umana " la sua dignità, la sua libertà, il suo potere.
Il
suo legame al concetto di comunità che,entro
cerchi circoncentrici, parte dalla prima decisiva linea, quella della famiglia
e procede verso le altre linee di integrazione, autonomie locali, associazioni
libere, sindacati, mantenendo sempre la perrsona umana al centro.
E'
una visione personalista che fa riferimento non soltanto alle elaborazioni di J
Maritain ed Emmanuel Mounier ma che si arricchisconodella forza della sua riflessione filosofica
e giuridica.
Lo
Stato, la pena. sono i temi dei suoi fondamentali libridi dottrina giuridica. Lo Stato democratico,
l'uomo libero. In una realtà storico-sociale nella quale partendoda Toniolo e dalla dottrina sociale della
Chiesa che proprio sotto il Pontificato di Giovanni XXIII e di Paolo VI si era
articolata in modo adeguato ai nuovi tempi.
Mai
nessun economicismo, pur nel riconoscimento del valore della libertà e della
responsabilità sul piano dell'iniziativa economica e quindi nel superamento di
ogni forma statalistica - che, invdce, era il vezzo dell'indirizzo socialista
del tempo.
Una
vera e propria concezione antropologica è il suo contributo al futuro
Una
concezione fondata sul primato
dell'uomo, in quanto creatura di Dio, partecipe del mistero della vita.
"" Omne agens agit sibi simile
" E da quella visione trascendentale dell'uomo colta da S.Tommaso, Egli
ricavava che l'essere umano - creato per la Divina bontà _poteva essere buono.
Perchè
Egli era un uomo buono. Sempre pronto a cogliere la dove c'era il bene da
valorizzare sempre per rendere il male meno determinante.
Risuonano,
ancora, nelle orecchie di chi ha potuto ascoltarle le parole della Preghiera di
Paolo VI : " Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo
simile alla grossa pietra rotolata all'ingresso del sepolcro di Cristo,
vogliono aprirsi per esprimere il De Profundis , il grido cioè ed il pianto
dell'ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffocala nostra voce.
e chi
può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu o Dio della vita e della
morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per l'incolumità di Aldo Moro, di
questo Uomo buono, mite, saggio innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai
abbandonato il Suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la
resurrezione e la vita. Per lui, per lui.
L'Etica Politica: testimonianza di Aldo Moro perla società della Globalizzazione
Postato da admin [15/05/2018 21:30]
Venezia Mestre, 09 Maggio 2018- 40°
anniversario dell'assassinio di ALDO MORO
L’EREDITÀ POLITICA DI ALDO MORO. LA
CONFERMA DEI VALORI E DEI PRINCIPI DEI
POPOLARI E LIBERAL DEMOCRATICI
ITALIANI
L’ETICA POLITICA:
TESTIMONIANZA DI ALDO MORO PER LA
SOCIETÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE
Relazione di Antonino Giannone
Premessa
Il
rapimento di Aldo Moro avvenne il 16 marzo, in via Fani; furono trucidati i
cinque uomini della sua scorta. Il rapimento di Moro giunge al culmine di anni
in cui la rinascita economica dell’Italia, dopo la II^ guerra mondiale,
arrivava a compimento. Al tempo stesso le Istituzioni e il Paese erano scossi
da uno dei più agguerriti terrorismi dell’Europa occidentale.
Moro rimarrà prigioniero dei terroristi per
55 giorni, in via Montalcini 8, nel quartiere romano della Magliana. Dalla
cosiddetta «prigione del popolo» Moro scriverà a mano ca. 100 lettere e
messaggi e 400 pagine di memoriale, in risposta alle domande dei suoi
carcerieri. Cinquantacinque giorni dopo il sequestro, il 9 maggio 1978 le Brigate
Rosse assassinavano Aldo Moro. 40 anni dopo, questa drammatica vicenda,
continua a gravare sulla coscienza e sulla storia del nostro paese, sia per il
peso morale e politico dell’eccidio, sia per le ombre che tuttora sussistono. Non
sono bastati 5 processi e il lavoro di alcune commissioni parlamentari a
chiarire il vero perché dell’assassinio di Moro, né a far luce su non pochi
rilevanti aspetti dell’azione terroristica delle Brigate Rosse. Inquietanti
domande relative a quel tragico episodio rimangono senza risposta, in attesa di
una Verità, il «caso Moro» non si potrà ritenere chiuso, né si potrà
archiviare. È un dovere civile ed etico mantenere viva la
memoria di Moro, leader politico e servitore dello Stato. Ad Aldo Moro,
l’Italia intera deve tantissimo.
i Democristiani non pentiti
i Cattolici senza aggettivi
i Popolari Liberi e Forti
SIAMO TUTTI DEBITORI E
RICONOSCENTI NEI CONFRONTI DI MORO.
ETICA E LEADERSHIP.
L’ESEMPIO DI ALDO MORO PER I POLITICI DELLA SOCIETÀ
DELLA GLOBALIZZAZIONE
L’Etica
è una branca della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che
permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontologico ovvero
distinguerli in buoni, giusti o moralmente leciti, rispetto ai comportamenti
cattivi o moralmente inappropriati.
Gli scandali e la corruzione
in politica e nella società.
Già
ai tempi di Moro, ma anche nel tempo della globalizzazione, non solo di uomini
politici, ma in ambienti aziendali, finanziari, istituzionalie religiosi, hanno prodotto un’attenzione
particolare al valore della moralità e dell’integrità di un leader.
Gli scandali e la corruzione
in passato
e oggi ci suggeriscono di non generalizzare su tutti i politici, ma ci servono
per sapere distinguere
leader politici etici e leader politici non etici.
Leader e Politico
Un leader manifesta virtù
etiche e sa creare situazioni vincenti nei confronti di 4 dimensioni
fondamentali della leadership:
il leader (competenze;comunicativa )
gli altri (i cittadini, i
seguaci, i collaboratori,gli amici, la
società civile)
gli obiettivi (politici;
economici; sociali)
il sistema in generale:
sociale, culturale, istituzionale, politico, familiare.
La Leadership Etica non è solo qualcosa
che è giusto fare, ma che si deve fare
perché è giusto essere etici e integri dal punto di vista morale; ma è
anche importante essere etici, perché
essere etici è innanzitutto vantaggioso ed utile.
La Leadership Etica e la congruenza di un Leadercon comportamenti appropriati hanno effetti benefici sui seguaci (che
sono coloro che designano il leader), sia che siano elettori, sia dipendenti,
sia credenti.
AUMENTANO NEI SISTEMI
ORGANIZZATIVI, NELLE AZIENDE, LA SODDISFAZIONE E IL BENESSERE LAVORATIVO ^
quando una persona sta bene ed è soddisfatta del
proprio lavoro, migliora anche la performance e la produttività aziendale, con
inevitabili vantaggi anche per il leader che è il portavoce e il rappresentante
principale dei risultati raggiunti.
^Avey, Wernsing, Palanski, 2012.
AUMENTANO I COMPORTAMENTI
PROSOCIALI ^
Le persone percependo di essere in’organizzazione
giusta, si aiutano di più vicendevolmente, compiendo più spesso i comportamenti
di cittadinanza organizzativa, ovvero tutti quei comportamentiprosociali e di altruismo non esplicitamente
richiesti né pagati nel contratto di lavoro, ma che comunque giovano
all’organizzazione. In un’azienda dove c’è altruismo, la performance e la
produttività migliorano.
DIMINUISCONO I COMPORTAMENTI
DI MOBBING E BULLISMO LAVORATIVO
che spesso danneggiano la vita lavorativa sia dal
punto di vista psicologico, economico e produttivo.
Il Leader per i subordinati è un esempio di come
ci si comporta, se il Leder è etico
^Stouten&Altri 2001
AUMENTANO LA FIDUCIA NELLE
PERSONE ^
il 62,5% della varianza della fiducia è spiegata
dalla leadership etica in pratica non c’è fiducia se non c’è etica. La fiducia
è fondamentale per la relazione leader-dipendente, leader politico- elettori
^ Craig, Gustafson, 2000.
Altre
conseguenze positive sono legate alla leadership etica, ma li tralasciamo
perché non servono per questo contesto.
Perché allora i leader
politici, adottano comportamenti non etici?
Perché accade che il leader
tende a separare i propri interessi da quelli dei seguaci?
FARE IL LEADER NON È
UN’ATTIVITÀ SEMPLICE, NÉ FACILE.
La teoria del contenuto degli
stereotopi ^
Ogni persona, per motivi evoluzionistici deve
stabilire in tempi reali chi sia l’altro, se si tratta di un amico o di un
avversario/nemico. L’immagine che ci creiamo degli altri deriva
dall’attribuzione di due tratti:
COMPETENZA
CALORE
^Secondo (Cuddy, Glick e Fiske)
Dalle combinazioni possibili
di presenza e assenza di questi tratti nascono delle emozioni in chi percepisce
il leader cioè nei seguaci, nei dipendenti, negli elettori.
Se
il leader è percepito come poco competente e poco caloroso.
le reazioni emotive sono uniformemente negative, si prova pietà per il
leader
se il leader è percepito come molto caloroso
e poco competente.
si hanno reazioni emotive
ambivalenti, ma alla fine prevale il disprezzo.
sebbene a livello sociale
possa funzionare bene, un leader di questo tipo non riesce a portare a termine
i compiti e gli obiettivi di gruppo
3)
se il leader è percepito come molto competente e poco caloroso.
Le reazioni
emotive sono ambivalenti e prevale come sentimento l’invidia.
Si
riconosce la competenza, ma non scatta in modo positivo la relazione con il
leader.
4)
se il leader è percepito come competente e caloroso. In questo caso
scatta
il
sentimento di ammirazione
Per individuare alcuni tratti distintivi di Etica
e Virtù Etiche di Aldo Moro basterà prendere in esame:
comportamenti pubblici e privati
idee che ha saputo perseguire con coerenza
relazioni interpersonali e familiari
rappresentanza delle istituzioni
religiosità in pubblico e in privato
«Qualche cosa da anni è
guasto, è arrugginito nel normale meccanismo della vita politica italiana.
[...] io credo all’emergenza, io temo l’emergenza. [...] C’è la crisi
dell’ordine democratico, la crisi latente con alcune punte acute. Io temo le punte acute, ma temo il dato serpeggiante del rifiuto
dell’autorità, della deformazione della libertà, che non sappia accettare né
vincoli né solidarietà. Questo Io temo»
(Dall’ultimo
discorso di Moro, rivolto ai gruppi parlamentari DC (28 febbraio 1978)
Nonostante
la gravità della minaccia, però,
LA FEDE DI MORO NELLA
DEMOCRAZIA È INCROLLABILE,
«[…]
dobbiamo dire con estrema compostezza il nostro “NO” a questa nuova minaccia
[...], riconfermando puramente e semplicemente la nostra natura di democratici.
Gli italiani che amano la democrazia, ridicano in questo momento che essi non
intendono vederla distrutta dalla violenza, che credono nel suo valore
costruttivo, che credono nella sua capacità di creare»
(discorso
del 18 novembre 1977).
Per Aldo Moro: la democrazia parlamentare è la più alta
sintesi che si sia mai riusciti a realizzare tra libertà e pluralismo,
solidarietà e giustizia.
Moro puntualizza:
“….lo stato democratico, a
motivo del principio di tolleranza, che è per esso essenziale, è esposto a
rischi e ad abusi, che possono metterlo a dura prova”.
Moro, con La Pira e Dossetti
aprirono
alle tematiche personalistiche e comunitarie espresse dal pensiero cattolico
francese (Maritain e Mounier)
L’UOMO-PERSONA
al
centro dell’attenzione dell’attività politica, sociale, religiosa
Di democrazia si può anche morire quando nei
cittadini dovessero venir meno la coscienza morale e la cultura della legalità,
se manca il «senso dello stato», l’anarchia, l’egoismo di
singoli e di gruppi e la violenza possono prevalere, abusando degli stessi
strumenti che la democrazia offre invece perché servano al servizio del bene
comune e della libertà.
L’insegnamento
di Don Luigi Sturzo è attuale, in sintesi la citazione di oltre 70 anni fa
di Don Sturzo:
“Servire la Politica e non
servirsi della Politica”
Nel caso della politica sono
icittadini che il politico dovrebbe
rappresentare.
Nel caso di un’azienda sono i
dipendenti che il manager dovrebbe sostenere per il loro sviluppo personale
congiuntamente allo sviluppo dell’azienda.
Una società con gravi carenze
di etica e morale non solo nella politica, ma anche nelle
altre attività, è un società decadente.
Viviamo
in una società lontana dai principi di umanesimo cristiano che da laici
vorremmo attuare nella società. Servirebbero nuovi modelli informativi e più
adeguati metodi formativi, in grado di attualizzare concretamente il progetto
religioso giudeo-cristiano, con l’obiettivo di rifondare spiritualmente ogni
forma dell’agire politico.
I
quattro periodi della vita di Aldo Moro
il primo periodo(1959-1963) anni in cui Moro fu Segretario
della DC;
il
secondo periodo (1963- 1968)
il
terzo periodo (1968-1974) Moro passa all’opposizione nel partito e diviene il
leader naturale della sinistra interna della democrazia cristiana
il
quarto e ultimo periodo (1974-1978).
Urgeva ormai immaginare nuovi percorsi politici,
attraverso un nuovo «patto costituzionale» richiesto pure dalla emergenza del
terrorismo di cui Moro diventa una vittima con il rapimento, la prigionia e
l’assassinio
Secondo
Moro:
Si impone
un nuovo impegno morale e civile, tale da coinvolgere tutti i cittadini
indiscriminatamente nell’opera difficile di costruire la Repubblica come una
vera «casa comune», dove regnino finalmente la giustizia e la pace sociale,
fondate su una solidarietà fraterna realmente vissuta.
Cosa è successo
dopo l’assassinio di Moro?
I processi di secolarizzazione e di globalizzazione in atto dagli anni
’90 hanno generato nel nostro tempo una«ischemia verticale» non solo dei valori cristiani, ma anche del senso
religioso ed etico della vita.
Mi unisco a quanti pensano che sia necessario realizzare una sorta di
nuova costituente», non giuridica, ma etico-culturale. Soprattutto ora, nel
2018: noi italiani, come popolo, come Paese, dovremmo rafforzare in Europa la
nostra identità giudaico cristiana piuttosto che diluirla, come invece accade
per l’imperante relativismo e per la crescente invasione islamica, che fu
preannunciata nel 1978 all’ONU da Boumedienne Presidente dell’Algeria.
Senza una
sostanziale unità morale, nella salvaguardia del ricco pluralismo culturale caratteristico del nostro paese — che Moro sognava di realizzare —, non
basteranno da soli i programmi politici ed economici, né le riforme più
coraggiose, a farci superare positivamente la lunga transizione in atto.
L’eredità di Aldo
Moro: raccogliere oggi l’eredità politica di Aldo Moro
significa: continuare con tenacia l’opera di ricomposizione del tessuto
culturale e morale dell’Italia, lacerata da cinquant’anni di rigide
contrapposizioni ideologiche.
Occorre tessere un nuovo «patto sociale» fra i cittadini di buona
volontà, a partire da quei comuni valori di convivenza civile che sono
garantiti dalla nostra costituzione.
LA COSTITUZIONE
È la carta etica dei diritti e dei doveri che può essere l’amalgama del
popolo italiano che così si è espresso con il voto del no al referendum
promosso da Renzi&PD. Purtroppo è mancato il coraggio di un nuovo grande rassemblement politico che avesse come
piattaforma di attuare la costituzione italiana e di ridare vitalità alla
sovranità popolare. Aprirsi alla testimonianza e affermazione dei valori
cristiani in un contesto
pluralistico e secolarizzato.
Quali Virtù etiche
per un Politico? Quali Virtù etiche di Aldo Moro?.
ONESTÀ
–TRASPARENZA –LEALTÀ –TEMPERANZA – RISPETTO
Moro diceva: «Quando
si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre
illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi»
Se
rinunciamo a una vita contrassegnata da Verità- Bellezza
–Bontà ci rassegniamo a un mondo in cui nulla ha valore, in cui tutto va bene.
Se non vogliamo cedere a un’esistenza senza gioia, senza nome o senza finalità,
è di vitale importanza riesaminare sotto una luce molto chiara le nostre
concezioni di queste virtù etiche.
Interrogativi per l’Etica politica nella società della
globalizzazione.
Di quanta moralità ha
bisogno la Politica?
E’ proprio vero che le mani dei politici debbano sempre restare pulite?
Un leader politico deve
rendere conto ai cittadini della sua vita privata?
Quanta segretezza consente la “Ragion di Stato”?
Quanto serve il segreto di Stato a tutelare diritti e vite umane, e quanto
invece sottrae elementi importanti al controllo democratico dei cittadini?
Partire dal primato della società e dei suoi
valori e principi etici, sanciti nella Costituzione della Repubblica.
Sarà possibile restituire un’anima etica e culturale ai partiti e alla
politica?.
È questa la sfida centrale con la quale ci dobbiamo misurare oggi e per il
futuro.
Il sangue di Moro non sarà stato sparso invano, se avrà trasmesso l’incrollabile
fede nella democrazia intatta a noi e alle nuove generazioni.
Per le esigenze e la
responsabilità dei nostri giorni nella società della globalizzazione ho scelto
di fare concludere ad Aldo Moro:
«Se fosse
possibile dire saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a domani, credo che
tutti accetteremmo di farlo. ma non è possibile. Oggi dobbiamo vivere, oggi è
la nostra responsabilità.
Si tratta di
essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso. Si tratta di vivere il tempo che
ci è dato di vivere con tutte le sue difficoltà»
Grazie per l’attenzione
Antonino Giannone
^
Prof. a.c. Politecnico di Torino, Etica professionale e Relazioni Industriali –
Strategie aziendali.
Corso
di Laurea Magistrale in Ingegneria della Produzione industriale e
dell’Innovazione tecnologica.
Quando la fede dà forma alla politica
Postato da admin [19/04/2018 21:54]
Alcide De Gasperi non è stato soltanto un “politico di professione” che ha governato il Paese circa 70 anni fa, ma ha rappresentato una delle espressioni più alte di un popolo e di un gruppo dirigente – cristiano, democratico ed italiano – che ha ricostruito l’Italia dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale e ha tracciato la strada maestra per gli anni futuri, addirittura fino ai giorni nostri (...). Le differenti vedute che animarono il dibattito tra i “professorini” della DC, la leadership politica degasperiana e quella ecclesiastica montiniana, così come le differenti prospettive politiche dei cattolici durante la Seconda repubblica, esigono oggi un autorevole approfondimento culturale e soprattutto una nuova riflessione pubblica. (...). A mio avviso, De Gasperi è stato indubbiamente un vero italiano, un autentico cristiano e uno straordinario statista, tra i più importanti – se non il più importante – dell’Italia unita. Queste tre dimensioni, tutte fortemente intrecciate tra loro, hanno però un’unica sorgente: la cifra spirituale e culturale della sua caratura umana.
La dimensione spirituale rappresenta infatti il punto di partenza, doveroso, per ogni riflessione sulla sua personalità. Come ha giustamente sottolineato Maria Romana De Gasperi, la spiritualità e la politica non furono due aspetti divergenti ma, all’opposto, “due angoli visuali diversi e complementari” che delineavano la sua complessa e ricchissima figura. La ricerca di Dio, l’anelito verso il trascendente, le domande ultime sul senso della vita, così come l’amore verso Francesca – testimoniato in moltissimi documenti – fanno parte di un’unica cornice umana, da cui non si può scindere la teoria e la prassi, l’assunzione di responsabilità verso il Paese e la faticosa esperienza di governo. Come infatti ha scritto l’ex direttore de “L’Osservatore Romano” Giuseppe Dalla Torre nelle sue memorie, De Gasperi visse in una sorta “di doppia solitudine”: quella “di lui, cattolico che si elevava verso quel Dio al quale chiedeva tranquillità e abbandono”, e quella “di lui, politico” che si prodigava nel perseguire “fin che era possibile, la giustizia e la carità tra gli uomini”. La fede era dunque riposta in Dio, la politica era invece una missione laica (...).
La politica è senza dubbio il campo della sua missione, ma la stella da cui tutto discende non si trova su questo mondo (...). In uno dei momenti più duri della sua esistenza, quando la rabbia e l’orgoglio avrebbero potuto prendere il sopravvento su ogni altra espressione dell’animo umano, si assiste invece ad un’ancora più intima e profonda conversione del cuore. Scrive De Gasperi: "Dapprincipio il centro ero io e tutto il resto si trovava sulla circonferenza: Dio, la famiglia, gli amici. Poi, lentamente, faticosamente, gemendo e sospirando sotto la pressura dell’esperienza, il centro si spostò: al centro stava ora Dio ed io mi trovavo sulla periferia, col resto del mondo; un pulviscolo in un vortice inesplorabile. Mi provai allora a spiegare gli avvenimenti dal Suo punto di vista". Queste stupende parole di De Gasperi, in cui sembrano riecheggiare persino dei termini straordinariamente in sintonia con il pontificato di Francesco, sono il compimento di un autentico cammino di conversione. Non l’odio, non il rancore e non la vendetta trovano spazio nel cuore di una persona che – è bene ricordarlo – aveva pagato la sua libertà di pensiero con la galera e l’emarginazione: ma la centralità di Dio nella sua vita. De Gasperi con queste parole testimonia quello che significa la libertà per un cristiano(...).
La grande questione che oggi si pone dinanzi ai nostri occhi non è solo il riconoscimento degli indubbi meriti storici di De Gasperi, quanto la questione cruciale della sua eredità nel mondo attuale. Io ritengo che si tratti di un’eredità estremamente preziosa per l’Italia e l’Europa attuale. Così preziosa che necessita ancora di essere pienamente sviluppata. Mi permetto di evidenziare due suggestioni.
La prima riguarda l’identità nazionale. Ho definito De Gasperi come un “autentico italiano” e l’ho fatto perché sono ben consapevole della sua origine di “uomo di confine” e delle accuse ingiuste (di essere un austriacante) che gli sono state spesso rivolte. (...) L’esperienza di De Gasperi ci viene a ricordare alcuni concetti preziosi per declinare l’identità nazionale: solidarietà, responsabilità, libertà ed Europa. Il quadro concettuale su cui si muove De Gasperi è dunque straordinariamente attuale. Proprio oggi quando stanno sorgendo venti di guerra in Medio Oriente, quando il Mediterraneo è al centro di un conflitto silenzioso sui migranti, quando tante piccole Italie emergono nel dibattito pubblico e quando il processo europeo viene messo in discussione da troppe pulsioni particolaristiche e di chiusura verso l’esterno, ecco, in questo contesto, il messaggio di De Gasperi sull’Italia e sull’Europa è straordinariamente importante: un’Italia libera e responsabile in una nuova Europa più solidale.
La seconda suggestione riguarda la vocazione politica. Che per De Gasperi è indiscutibilmente segnata dal rapporto tra la dimensione spirituale e la dimensione politica. Un rapporto cruciale nella sua biografia. E tuttavia un rapporto laico. Senza cedere a tentazioni integriste, senza ricorrere a scorciatoie propagandistichee senza mai strumentalizzare i simboli religiosi come amuleti identitari. De Gasperi ha il totale rispetto per la dimensione del sacro e trae la sua vocazione politica da una ispirazione spirituale che combina insieme l’esigenza di giustizia sociale con quella di carità. De Gasperi fa politica come “una missione” e con una sobrietà di cui oggi si sente una grande, grandissima, necessità in Italia, in Europa e in tutto il mondo occidentale.
CARD. GUALTIERO BASSETTI
*Estratto dall'intervento del presidente della Cei al convegno "A 70 anni dalle elezioni del 1948. Riunire storia e futuro nei valori degasperiani: Europa, atlantismo, giustizia sociale" che si è svolto all'Accademia dei Lincei
Pio XII, i cattolici e le elezioni del '48
Postato da admin [18/04/2018 19:38]
Artiglieri, presidente del Comitato Papa Pacelli: "Fu il successo di un'antropologia da riscoprire"
ANDREA ACALI
Settant'anni fa gli italiani furono chiamati alle urne per eleggere il Parlamento della Prima legislatura dopo il ventennio fascista (nel 1946 si erano svolte le elezioni per la Costituente insieme al referendum istituzionale). Una data decisiva per il futuro del nostro Paese perché ancorò saldamente l'Italia al blocco occidentale, rafforzò la neonata democrazia ed evitò il rischio di finire nell'orbita sovietica. Il 27 aprile è in programma a Genova un convegno per ricordare quelle consultazioni e in particolare il ruolo di Pio XII e l'impegno dei cattolici per la libertà, organizzato dal Comitato Papa Pacelli - Associazione Pio XII. Tra i relatori, oltre al professor Giulio Alfano della Lateranense, figura l'avvocato Emilio Artiglieri, 58 anni, presidente del Comitato, postulatore in diverse cause di beatificazione. In Terris lo ha intervistato.
Le elezioni del 18 aprile 1948 furono uno spartiacque per la democrazia italiana. Quale fu il ruolo di Pio XII?
"Fu molto importante soprattutto nel suscitare la consapevolezza della gravità dell’ora. In più allocuzioni Pio XII aveva sottolineato l’importanza decisiva di quel momento, il momento della prova, non più della teoria ma quello in cui ci si deve impegnare, agire, rispondere all’impulso della propria coscienza. Un’importanza cruciale, dunque. E questo fu in qualche modo lo scopo dei Comitati Civici che Luigi Gedda promosse su indicazione del Papa. Non si trattava tanto di dare un’indicazione di voto, anche se era sottintesa, quanto di portare le persone a votare, di renderle consapevoli dell’importanza di un confronto decisivo per la democrazia italiana ma anche per la vita della Chiesa, visto quello che succedeva nell’Europa orientale, dove erano già evidenti le prove di come si comportavano i regimi marxisti".
La fine di un incubo, come si intitola una delle relazioni del prossimo convegno di Genova.
"Esatto. Bisognava evitare di arrivare a una situazione simile a quella dei Paesi nell'orbita sovietica, anche se magari non proprio dei regimi più feroci, sebbene in Italia le minacce non mancassero. Tanti testimoni ricordano come le persone vissero quelle elezioni appunto come la fine di un incubo, di questo timore di una vittoria dei comunisti. Non dimentichiamo quello che era successo subito dopo la guerra. Sappiamo quanti massacri si erano consumati dopo il 25 aprile, sia di fascisti che di persone che fasciste erano ma erano considerate non ostili al precedente regime. Oppure per vendette personali: c'era il timore non solo di un nuovo regime dittatoriale ma più in generale di violenze diffuse".
Fu la vittoria della Dc o dei Comitati Civici?
"Ritengo che sia stata una vittoria di entrambe le realtà ma soprattutto dei Comitati, proprio alla luce della forte differenza di voti presi dalla Dc nel 1946 e nel 1948. E' quella differenza che ha dato stabilità, dovuta proprio al richiamo della Chiesa. Ricordiamo anche le famose vignette, i manifesti e gli slogan, come 'Nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no', che servivano a richiamare la drammaticità di quel confronto. Pio XII il 28 marzo, pochi giorni prima delle elezioni, fece un discorso molto chiaro: 'Voi diletti figli e figlie ben comprendete cosa un tale bivio significhi e contiene in sé per Roma, l’Italia e il mondo'. Siamo a un bivio secondo Pio XII. E questa è l’opera principale del Papa in quella circostanza: aver scosso in qualche modo le coscienze degli italiani richiamando la gravità del momento e attraverso i Comitati Civici aver dato concretezza a questo richiamo".
Lei ha ricordato che "furono mobilitati fino all’ultimo prete e all’ultima parrocchia". Non fu in qualche modo una 'indebita ingerenza del Vaticano'?
"Ma in questo caso la drammaticità del momento dava spiegazione di quella che potrebbe sembrare un’ingerenza. Non erano elezioni come le altre, era un crinale per la civiltà italiana. Una vittoria del Fronte popolare avrebbe significato quanto meno una forte riduzione della libertà della Chiesa se non una vera e propria persecuzione come avveniva nei Paesi sotto controllo sovietico. Quindi il richiamo era più che giustificato".
Cosa rappresentò l'esito di quelle elezioni?
"Non fu solo un successo elettorale ma fu soprattutto una vittoria della cultura cattolica che nasceva dalla Rerum Novarum, dal magistero di Pio XI, dai radiomessaggi di Pio XII. Richiamare questo aspetto è anche il senso del convegno di Genova. Non dimentichiamo poi il Codice di Camaldoli del '43, pubblicato all'inizio del '45, alla cui stesura avevano partecipato quelli che diventeranno i grandi protagonisti della storia repubblicana come Moro, Andreotti, Vanoni. C'era un pensiero: quello che occorre sottolineare è proprio questo. Dietro il risultato del 18 aprile c'è la vittoria di un pensiero cattolico. Ricordiamo che il Codice di Camaldoli era stato fortemente sostenuto da Montini ed è interessante vedere come le figure di Pacelli e di quello che diventerà Paolo VI erano molto più vicine di quanto si possa pensare".
Perché Gedda fu emarginato dopo quelle elezioni? E quale fu l'atteggiamento di Pio XII?
"Gedda in realtà non ambiva ad avere delle responsabilità politiche dirette. Gli fu proposto un seggio senatoriale ma non accettò. Più che esser messo da parte direi che l'evoluzione politica valorizzò linee diverse, soprattutto dopo la morte di Pio XII, al quale Gedda fu molto legato fino alla fine, per tanti aspetti, come dimostra la frequentazione assidua che aveva con il Papa".
A 70 anni di distanza il ruolo dei cattolici in politica appare sempre più marginale, in Italia e non solo. Che ne pensa?
"Ritengo che il problema sia legato a quanto dicevo prima ossia al fatto che bisogna riscoprire il pensiero cattolico perché non basta scendere nell'agone politico, bisogna farlo con idee precise. Il '48 ha segnato la vittoria di una precisa visione antropologica, quella dell'uomo che ha una dignità. Il famoso radiomessaggio di Natale del 1944 di Pio XII non a caso fu dedicato alla democrazia perché, diceva il Papa, come il Natale manifesta la grande dignità dell'uomo per cui Dio si incarna e l'uomo è nobilitato dall'Incarnazione del Figlio di Dio, occorre anche un regime politico che sia conforme a tale dignità. Ecco perché il radiomessaggio parla della democrazia, al di là delle concrete declinazioni che può avere nei vari popoli e nelle circostanze storiche, dal punto di vista del rispetto per la libertà e la dignità della persona umana. Ma Pacelli ammonisce anche, e lo faranno pure i suoi successori, sul rischio che la democrazia possa diventare totalitaria nel momento in cui non riconosce dei valori superiori a sé. Bisogna quindi garantire la democrazia (anche attraverso l'opera della Chiesa e del richiamo alla legge morale che è superiore a quella dello Stato) dal pericolo di assolutismi che possono esistere anche in regimi democratici. E certe vicende attuali ci richiamano proprio al rischio che leggi dello Stato possano essere considerate qualcosa di invalicabile quando anche fossero contrarie alla legge di Dio e al bene vero dell'uomo".
Oltre alla mancanza di un pensiero forte non c'è anche una mancanza di coraggio nei cattolici che si impegnano in politica?
"Certamente c'è quello che il cardinal Siri chiamava il 'complesso di inferiorità' che però è connesso alla mancanza di consapevolezza del pensiero cattolico e anche di quelli che sono stati i nostri maestri, i nostri grandi padri. Certe volte si fa riferimento a personaggi di altre tradizioni, quasi che in ambito cattolico non ci siano personaggi importanti, grandi pensatori, un nome per tutti Toniolo ma anche per esempio Fanfani, che hanno dato un contributo importante. Invece si va a mendicare in casa d'altri quando in casa nostra avremmo tanti spunti importanti e che servirebbero a trovare quel coraggio che manca. Riscoprire queste radici, questi grandi personaggi, questi grandi principi è quello che serve per recuperare coraggio. Altrimenti si resta in posizioni di sudditanza culturale e nei complessi di inferiorità che ci impediscono di far valere la nostra visione anche attraverso la competizione elettorale".
E questo può avvenire oggi con il sostegno dei vescovi?
"Direi che è auspicabile soprattutto riscoprire l'importanza della formazione. Penso che i vescovi possano agire non tanto a livello di interventi diretti, perché non è compito loro entrare nella contesa politica, se non in casi indispensabili per salvaguardare certi princìpi, quanto nel favorire una adeguata preparazione dei laici".
In definitiva cosa rappresenta oggi l'anniversario del 18 aprile?
"Significa un po' la riscoperta di quel pensiero che è stato vincente all'epoca e che ritengo possa esserlo ancora".
Europa e Cristianesimo
Postato da admin [02/04/2018 22:18]
EUROPA È
CRISTIANESIMO
Nell’Occidente che ha dimenticato
le proprie radici l’annuncio cristiano non pretende di apportare alla cultura
nuovi contenuti, ma di fornire una nuova e più grande prospettiva di Rémi Brague
01 aprile 2018
L’11
gennaio scorso la Pontificia Università Giovanni Paolo II di Cracovia ha
conferito un dottorato honoris causa a Rémi Brague, storico della filosofia e
autore di insuperabili saggi su cristianesimo ed Europa. In occasione del
conferimento del titolo, Brague ha tenuto una lectio magistralis in francese
dal titolo “Qu’est-ce que l’Europe peut faire avec le Christianisme?”, che è
stata tradotta e appare sul numero di marzo di Tempi. Dopo la trasformazione da
settimanale in mensile, Tempi è distribuito solo in abbonamento (per info: www.tempi.it).
Che cosa può fare l’Europa col
cristianesimo? (…). E’ noto il breve saggio di Novalis “La Cristianità ossia
l’Europa”, che il poeta romantico tedesco scrisse nell’ottobre 1799 e che fu
pubblicato solo nel 1826. Questo testo non è così ingenuo e rivolto al passato
come si potrebbe immaginare dopo una rapida lettura. In ogni caso, al momento
della sua apparizione fu inteso come un tentativo di identificare Europa e
cristianesimo. Ora la situazione si è ribaltata. Qualche anno fa è divampata
una polemica a proposito del Preambolo di un Trattato costituzionale
dell’Unione europea. La prima bozza del testo menzionava espressamente
l’eredità cristiana dell’Europa. Si è asserito, purtroppo da parte di molti
miei compatrioti, che quell’affermazione nuoceva alla nostra vacca sacra: la
laicità. Si cancellò la formula e la si sostituì con una vaga allusione alla
tradizione religiosa. Anziché chiamare le cose con il loro nome, si è preferito
farvi riferimento in modo nebuloso. Come se l’Europa non volesse – o piuttosto
certi europei non volessero – avere più niente a che fare col passato cristiano
del continente. Come valutare questo fenomeno? Provo sentimenti contrastanti al
riguardo. Da una parte penso sia un brutto segno. E non parlo solo “pro domo
mea”, in quanto difensore del cristianesimo, ma come semplice cittadino. La volontà
di negare la realtà è un segno chiaro e facilmente riconoscibile
dell’ideologia. Ora, io non ho alcuna voglia di essere governato da degli
ideologi. La Francia ha già fatto questa esperienza nel 1793. Per non parlare
dei tentativi sovietici, poi nazisti, maoisti, cambogiani sotto Pol Pot.
Intendiamoci: gli ideologi di oggi non hanno la minima intenzione di commettere
gli stessi crimini dei loro predecessori. Ma l’ideologia ha la sua logica
intrinseca. C’è anche una “astuzia dell’irrazionalità”. Se si vuole malgrado
tutto tirare fuori qualcosa di positivo da un fenomeno negativo, questa
attitudine dimostra, nel peggiore dei casi, che ci sono ancora persone alle
quali il cristianesimo fa paura, e questa è una cosa che, a pensarci bene,
trovo molto incoraggiante. Se i cristiani dovessero perdere totalmente questa
dimensione di spauracchi, allora il sale della Terra avrebbe perso
irrevocabilmente il suo sapore… Grande estimatore di Chesterton, ho apprezzato
particolarmente nel suo romanzo “L’uomo che fu Giovedì” il personaggio di
Domenica. Questo misterioso personaggio simbolizza con tutta evidenza Dio. Egli
è allo stesso tempo il capo della polizia e il leader di una cospirazione
anarchica ovunque presente che semina dappertutto il disordine.
L’atteggiamento a cui ho fatto
sopra riferimento rappresenta una sorta di punto intermedio fra due versioni di
uno stesso atteggiamento di fondo negativo nei confronti del cristianesimo. Le
illustro brevemente. Una versione estrema rifiuta al cristianesimo qualsiasi
ruolo nello sviluppo dell’Europa. Lo spirito europeo sarebbe figlio
dell’Illuminismo, ridotto alla sua espressione più radicale. L’apporto
cristiano sarebbe limitato al medioevo e per questo sarebbe superato. Il
medioevo altro non sarebbe che una parentesi fra due vertici radiosi:
l’antichità pagana e il paese della cuccagna della Ragione che marcia
progressivamente verso di noi, ma non è ancora arrivato. Di conseguenza
l’Europa sarebbe destinata a sostituire la vecchia “Cristianità”. Le due –
Europa e cristianità – sarebbero non solo differenti, ma opposte. Dal punto di
vista della storia delle idee, c’è in questa visione un granello di verità: è
vero che l’Illuminismo ha usato la parola “Europa” in contrapposizione al termine
“Cristianità” che si usava in precedenza, e ciò proprio allo scopo di respingerlo.
Allo stesso modo si è cercato di sostituire le nozioni cristiane con un sistema
di concetti di origine illuminista. Per esempio, l’amore del prossimo che è parte
della virtù teologale della carità è stato sostituito dalla “beneficenza”. Ma
alla fine questo tentativo si è dimostrato troppo abborracciato per poter
convincere. Esiste una versione più moderata dello stesso modo di vedere. Essa
attribuisce al cristianesimo un posto nella storia intellettuale dell’Europa, e
pure un posto onorevole, ma appartenente a un passato irrevocabilmente
superato. Il cristianesimo avrebbe certo assolto una missione nella storia
dell’Europa, ma in un modo tale che ora si può fare a meno di esso. Il
contenuto del messaggio cristiano avrebbe penetrato la cultura europea in modo
talmente profondo che ora si potrebbe gettare la conchiglia che lo conteneva.
Noi abbiamo senza dubbio una mentalità cristiana. Ora si può tranquillamente
“abrogare” il cristianesimo nel senso in cui lo diceva Hegel (aufheben). Ci troveremmo di fronte a
una nuova versione del protestantesimo liberale, o piuttosto della caricatura
che ne hanno fatto i suoi avversari. E ancora: non si fa fatica a interpretare
in questo senso il celebre saggio che Benedetto Croce ha scritto nel 1943:
“Perché non possiamo non dirci cristiani”.
Separazione tra
nazionale e religioso
A lungo termine questo
atteggiamento è probabilmente più pericoloso per il cristianesimo del primo.
Perciò devo riformulare la domanda iniziale in un altro modo: che cosa ha a che
fare l’Europa col cristianesimo? Si può intendere la domanda in due sensi. Anzitutto
significa: che rapporto c’è fra la cultura europea e la religione cristiana? Ma
prendendo ogni singola parola vuol dire anche: che cosa può fare l’Europa col
cristianesimo, a che cosa gli può servire? Cercherò di percorrere una dopo
l’altra queste due differenti strade. In che misura il cristianesimo è stato,
in passato, fattore di cultura per l’Europa? Si potrebbe rispondere alla
domanda facendo la lista delle influenze cristiane sulla cultura europea. In
tal modo intraprenderemmo un’analisi spettrale dell’Europa, nello spirito del
conte Hermann Keyserling. L’aristocratico terriero della Pomerania aveva
pubblicato nel 1929 un libro intitolato “Lo Spettro dell’Europa”. A mio parere
una tale intrapresa sarebbe inopportuna per due ragioni. Da una parte,
occorrerebbe misurare con precisione l’importanza dell’elemento cristiano nella
formula europea, una cosa molto difficile. E che, inoltre, inviterebbe a
comparare questo elemento con altre componenti: quella antica nelle sue due
metà, la greca e la romana, ma anche la germanica, la slava, la celtica, l’ungherese,
eccetera, ciascuna delle quali rivendicherebbe evidentemente il posto più
grande possibile e farebbe valere i suoi meriti minimizzando quelli degli
altri. Ne deriverebbe una sorta di guerra civile storiografica che non
porterebbe a niente di buono. Dall’altra parte, e più profondamente, non si
farebbe altro che passare in rassegna ciò che effettivamente è accaduto. Ora, è
noto che dalla constatazione di un fatto non si ha il diritto di dedurre una
norma che varrebbe per l’avvenire. Dall’essere non si può derivare nessun dover
essere. Inoltre questo passato in fondo non era che una possibilità fra tante
altre che avrebbero potuto realizzarsi e che, tuttavia, non sono diventate
attualità. Si potrebbe anche affermare che ciò che ha avuto luogo ha impedito
ciò che non ha avuto luogo, ovvero l’ha violentemente represso. Ciò che non ha
avuto luogo è diventato un sogno. Ora, si sa, i sogni sono più belli della
realtà, perché in essi ci si muove più liberamente che nel duro mondo dei
fatti. Di conseguenza non si fa fatica a immaginare che una storia dove il
cristianesimo non fosse esistito sarebbe stata più bella. E’ ciò che per
esempio ha fatto Nietzsche in un lungo paragrafo del suo “L’Anticristo”. Io mi accontenterò
qui di quello che si può stabilire per mezzo della scienza storica e in questo
senso esporrò brevemente quello che è il contributo del cristianesimo
all’Europa. Per fare ciò non descriverò ciò che di cristiano c’è nell’Europa,
ma ciò che il cristianesimo ha fatto per l’Europa.
Presenterò anzitutto l’apporto del cristianesimo in
quanto religione in generale. In seguito porrò la domanda in maniera più
approfondita: che cosa ha fatto per l’Europa il cristianesimo, considerato
stavolta non più come una religione in generale, ma come la religione del tutto
particolare che è.
Come una religione fra tante, il
cristianesimo ha reso possibile la nascita delle differenti nazioni d’Europa.
La fusione degli abitanti romanizzati dell’Impero e dei popoli “barbari”
immigrati è avvenuta attraverso la partecipazione a un’unica fede. Tuttavia è
verosimile che questo ruolo avrebbe potuto essere assunto da un’altra
religione. L’elemento decisivo in effetti fu che i nuovi arrivati adottarono la
religione dei popoli conquistati. E questo sarebbe potuto accadere ugualmente
con, diciamo, la religione di Mithra, se avesse avuto il sopravvento, o anche
il manicheismo che giunse più tardi. L’islam ha fatto anch’esso qualcosa di
simile per le regioni del mondo che ha conquistato. All’origine, esso era forse
la religione dei cavalieri arabi che conquistarono il medio oriente. Sotto la
dinastia degli Abbassidi (a partire dal 751), si cristallizzò per divenire la
religione della maggioranza dei popoli conquistati, fatto in seguito al quale
la differenza fra dominatori e dominati si dissolse a poco a poco.
Parliamo ora del contributo del cristianesimo come
tale. In forza della sua specificità, il cristianesimo ha messo in moto due
movimenti a lungo termine che sono stati entrambi costitutivi per l’Europa. A)
Il cristianesimo ha anzitutto reso possibile la separazione fra il nazionale e
il religioso. Ciò ha portato direttamente alla costituzione dell’Europa come un
coro politico nel quale ogni nazione ha la sua voce per il fatto che, molto
concretamente, parla la sua propria lingua. La Bibbia è stata tradotta in numerose
lingue perché l’oggetto rivelato nel cristianesimo non è un “messaggio”, e
ancora meno un “libro santo” dettato in una precisa lingua, ma una persona. Di conseguenza,
ogni cultura si vede riconosciuta una stessa dignità. Ogni popolo è alla stessa
distanza da Dio. Nella pratica, vale a dire al livello del diritto e della
politica, questa separazione si è concretizzata attorno all’anno Mille. Il
battesimo della Polonia, nel 966, ebbe luogo in un’epoca in cui questo paese
cercava già di sfuggire all’influenza germanica. Tale movimento raggiunse il
suo apogeo quando, all’inizio dell’XI secolo, il papa Silvestro II fece
incoronare i re di Ungheria e di Boemia senza domandare loro di entrare a fare
parte del Sacro Romano Impero. B) In seguito il cristianesimo ha reso possibile
l’appropriazione dell’eredità antica, o più esattamente un certo stile di
appropriazione. Diversamente dal modo abituale di appropriarsi per incorporazione
e digestione, l’Europa s’è appropriata dell’eredità del pensiero antico in modo
tale che l’alterità di questa eredità è stata rispettata, che l’estraneo è
stato lasciato alla sua estraneità. Ciò è stato possibile perché il
cristianesimo ha applicato all’ambito della cultura profana il modello del suo
rapporto con l’Antico Testamento. Facendo ciò, ha reso possibile la lunga serie
di Rinascimenti che hanno impresso il loro sigillo sulla storia culturale
europea.
Servizio non è
servilismo
Vengo ora alla mia seconda
domanda, o piuttosto alla seconda accentuazione della domanda: a cosa serve il
cristianesimo? Ciò che qui è importante è il tempo presente. La domanda allora
significa: che cosa può fare il cristianesimo per l’Europa di oggi? A cosa
serve? Si potrebbe considerare questa domanda come sprezzante, umiliante. Avremmo
mai l’idea di domandare a cosa serve l’arte? A cosa serve la filosofia? Non è
in questo senso che la pongo. Il cristianesimo si concepisce come servitore,
ben inteso il servitore del suo Signore. Ma questo Signore non si è comportato
come un comune padrone, poiché si è lasciato abbassare fino a divenire come uno
schiavo, “assunse la forma di uno schiavo” (Filippesi 2,7). Nell’imitazione del
Cristo c’è anche, necessariamente, un momento di servizio reso all’uomo. Questo
non significa tuttavia affatto che i cristiani dovrebbero aiutare il mondo a
raggiungere lo scopo che il mondo si propone di raggiungere sulla base
dell’immagine che esso ha di se stesso. Significa ancora meno che dovrebbero
mettersi a rimorchio di qualunque assurdità del momento. Il servizio non è un
servilismo. In ogni modo ciò non aiuterebbe la chiesa a diventare popolare.
Peggio ancora: per un “mondo” sempre pronto a lasciarsi andare a comportamenti
suicidi, ciò equivarrebbe in ultima istanza a rendergli un pessimo servizio. Il
cristianesimo deve piuttosto discutere col “mondo” in modo tale da mostrargli i
punti delicati, quelli dolenti. Vengo dunque alla mia tesi centrale: il
cristianesimo non pretende di apportare alla cultura dei nuovi contenuti: gli
fornisce una nuova prospettiva. La rivoluzione cristiana è per così dire una
rivoluzione fenomenologica. Essa consiste nel rendere visibile ciò che fino a
quel momento era invisibile. Si spande una nuova luce, ed è per questo che in
un certo senso non accade nulla. Quando accendo la luce nel mio ufficio, in un
certo senso non succede proprio nulla: non appare nessun mobile in più, nessun
libro in più, nessun foglio in più svolazza per terra. Ma in un altro senso,
succede qualcosa di più importante: la totalità di ciò che era già presente
diventa visibile. Questa dichiarazione secondo cui il cristianesimo non apporta
nulla di nuovo può apparire paradossale, addirittura sconvolgente. In realtà
non faccio altro che esprimere con l’aiuto di un’immagine nuova un’idea molto
antica. Questa antica saggezza si trova infatti presso uno dei primi padri
della Chiesa greci, sant’Ireneo di Lione. Egli scrive, con una formulazione ardita,
che Cristo non ha portato nulla di nuovo. Ma, aggiunge, ha rinnovato tutte le
cose apportando se stesso (omnem novitatem attulit semetipsum afferens).
Il basso e l’elevato
Per illustrare questa tesi mi
permetto di cominciare con un esempio che, a prima vista, potrebbe apparire
marginale. Si tratta dell’arte, e più precisamente delle arti che hanno per
scopo quello di rendere visibili le cose; per dirlo con Schopenhauer, le “arti
della rappresentazione”. Il cristianesimo ha favorito l’ascesa delle arti
plastiche. Ma, in compenso, non ha reso possibile un’arte nuova. Un paragone
con l’islam può essere in questo caso fruttuoso. L’islam ha proibito la
rappresentazione di esseri viventi – proibizione che fortunatamente non è stata
sempre seguita: si pensi alle miniature persiane. D’altra parte, questa
interdizione islamica ha promosso un’arte che la compensa: la calligrafia, e
più esattamente l’applicazione della calligrafia alla scrittura alfabetica.
Anche i cinesi conoscono una calligrafia, che abbellisce gli ideogrammi. Il
nome attuale di questa specie di arte ha conservato una traccia di questa
origine: l’arabesco. In più, il cristianesimo ha reso possibile un certo stile.
Qui prendo a prestito la mia idea da Erich Auerbach. Il grande filologo tedesco
ha formulato la sua tesi per la prima volta nel suo libro su Dante, grazie al
quale ha avuto la cattedra di filologia romanza a Marburgo nel 1929. Poi l’ha
potentemente sviluppata nel suo capolavoro Mimesis. Il suo soggetto è il
realismo come tratto fondamentale della letteratura europea. Il realismo, vale
a dire la presentazione della realtà, è diventata per noi un’evidenza che va da
sé. Non possiamo immaginare in nessun modo che uno scrittore serio possa avere
un altro obiettivo. E tuttavia il realismo non è sempre esistito. Nella
letteratura antica regnava in effetti una netta separazione fra due livelli di
stile, ciascuno dei quali corrispondeva a un livello della realtà sociale. Lo
stile elevato (sublimis) era impiegato per il destino degli eroi e dei nobili
nell’epopea e nella tragedia. Lo stile umile (remissus) della commedia andava
bene per le avventure del popolo minuto e anche per la malavita, come nel
Satyricon di Petronio. Il realismo suppone una trasgressione: il quotidiano può
essere espresso coi mezzi dello stile sublime. Cosa che corrispondeva a
cancellare la frontiera fra gli stili. Secondo Auerbach, questa rivoluzione
stilistica sarebbe la conseguenza diretta dei racconti sulla Passione del
Cristo nei Vangeli. In questi, è ciò che c’è di più basso – dei supplizi che si
concludono con un’esecuzione capitale penosa – che è raccontato nello stile più
elevato. Non ho scelto questo esempio per rendere omaggio a un qualche
estetismo. Quello che desidero esprimere è il modo in cui il cristianesimo ci
apre gli occhi. Vittime crocefisse ce n’erano, purtroppo, a profusione. Dei
crocefissi perfettamente innocenti erano già una rarissima eccezione. Dei
crocefissi resuscitati, non ce n’erano mai stati. Qui è interessante anche
evidenziare il modo in cui il cristianesimo opera: non predicando, e ancor meno
facendosi pubblicità. Procede attraverso la descrizione, attraverso un racconto
sulla vita, le opere e la morte di una persona. E quel che è decisivo è
l’avvenimento, non la relazione che ne viene fatta.
Ineonati,
l’aborto, il matrimonio
Questo mi conduce a una
considerazione più ampia che concerne l’azione umana. Il cristianesimo non
introduce alcuna nuova morale. Più precisamente ancora: non inventa alcun nuovo
comandamento. Col cristianesimo i Dieci comandamenti sono rimasti. D’altra
parte si incontra il loro contenuto in epoche anteriori o altrove rispetto all’ambito
di origine della religione di Israele. Forse non sono elencati in una lista
così chiara come nella Bibbia. Ma sono sempre attestati in ogni cultura. La
proibizione dell’incesto, quella dell’omicidio, si trovano ovunque. Niente di
strano in questo, se si suppone che siano incisi nella coscienza umana. Si
potrebbe ugualmente dire in modo più sobrio che senza queste regole una società
umana sarebbe perfettamente impossibile. Il problema non è la conoscenza della
legge morale. Ciò che importa è la sua applicazione: verso chi deve valere il
Decalogo? Per vederlo occorre avere occhi. Il cristianesimo in fondo non fa
altro che aprirceli. Non basta sapere che devo amare il mio prossimo. La
domanda del dottore della legge a Gesù è perfettamente giustificata: chi è il
mio prossimo? (Lc 10,29). Chi è uomo? Chi va considerato come uomo e chi no?
Per gli ebrei dell’epoca, un samaritano era un uomo a malapena, non lo si
doveva frequentare (Gv 4,9). È per questo che Gesù, di proposito, fa di un samaritano
l’eroe della parabola con cui risponde alla domanda. Nell’antichità molti uomini
venivano considerati degli infra-umani o dei non ancora completamente umani.
Come uomini erano invisibili. Più tardi è stato il caso dei neri negli Stati
Uniti, come Ralph Ellison dice già nel titolo del suo libro, L’uomo invisibile.
Il cristianesimo ha reso certe categorie di uomini visibili nella loro umanità.
Eccone alcuni esempi. A) L’esposizione dei neonati indesiderati o divenuti
indesiderabili a causa di qualche malformazione o per qualche altra ragione era
per gli antichi qualcosa di spiacevole, ma in nessun caso un crimine che si
doveva evitare con tutti i mezzi. La pratica era corrente. I filosofi non ci
trovavano nulla da ridire. Quando Platone delinea la città ideale nel dialogo
de La Repubblica, rappresenta Socrate che approva questa pratica senza rimorsi
di coscienza. Il cristianesimo, che su questo punto è del tutto nel solco dell’ebraismo,
si è levato contro questo costume e lo ha a poco a poco eliminato. B) Anche
l’aborto era una pratica abbastanza corrente nell’antichità. Certo, lo si considerava
una cosa spiacevole, come una cattiva abitudine, ma non come un omicidio. Il
cristianesimo per conto suo ritiene che il frutto dell’amore di due esseri
umani è anch’esso umano. C) Nell’antichità gli schiavi erano considerati degli
uomini non interamente umani. Il cristianesimo non ha cercato di liberarli –
una società senza schiavi era allora impensabile. Del resto anche nella città
degli schiavi in rivolta fondata da Spartaco c’erano degli schiavi. Il
cristianesimo ha tuttavia privato della loro legittimità gli argomenti a favore
della schiavitù, in nome della creazione dell’uomo a immagine di Dio. D) Il
matrimonio delle giovani donne nella maggior parte dei casi era deciso dai loro
genitori. La Chiesa è riuscita a garantire loro la scelta del coniuge. Ha dovuto
combattere per secoli per ottenere per i giovani il diritto a sposarsi senza il
consenso del padre. Si può ben dire che il cristianesimo ha combattuto
l’esposizione dei neonati, l’aborto, la schiavitù, i matrimoni forzati,
eccetera, che li ha proibiti o qualcosa del genere. Ma sarebbe più interessante
dirlo in modo positivo: il cristianesimo ci ha fatto vedere il bambino, il
feto, lo schiavo, la donna, come esseri umani a pieno titolo.
A vedere gli asseriti
infra-uomini come autenticamente umani nessun microscopio può aiutarci. Per
convincersene basta guardare alla contro-esperienza odierna: noi sappiamo molto
meglio che nell’antichità che l’embrione si sviluppa senza soluzione di
continuità dal momento della fecondazione fino al parto. Ora, questo non basta
per considerarlo umano. Una trentina di anni fa si sentiva dire in certi
circoli femministi, rumorosi ma fortunatamente ristretti, che il feto non era
che un ascesso del corpo femminile. Senza questi estremismi, la pratica delle
nostre società suppone qualcosa di analogo. Queste società sono costituite come
dei club privati nei quali l’ammissione di nuovi membri dipende dai membri già
iscritti, i quali si riservano il diritto di bocciare i candidati
indesiderabili. Si tratta di una pratica tristemente “normale”. Una cultura
“normale” distingue l’umanità di coloro che ne fanno parte in rapporto alla
natura che si suppone fondamentalmente animale degli altri popoli. In certe
popolazioni non esiste altro nome per designare gli appartenenti che quello di
“gli uomini”, e di conseguenza gli altri passano implicitamente per animali.
I teologi parlano di oculata fides, di “occhi della
fede”. Ogni fede ha occhi, ogni fede permette di vedere. Questo non significa
che la fede farebbe vedere qualcosa di diverso dalla realtà: l’oggetto della
fede non è altro che la verità. Il cristianesimo vede la realizzazione suprema
dell’umano e il culmine della presenza di Dio nel Cristo, e nel
Cristo crocefisso. Nel corpo di
Gesù sospeso alla croce, e anche nel suo corpo morto, la presenza di Dio
nell’umano raggiunge il suo vertice – non a causa della sofferenza, ma a causa
dell’amore con cui la sofferenza è stata accettata. Questo vuol dire che ogni
vita umana possiede una dignità intrinseca: è indifferente che possa esprimersi
attraverso atti, che non lo possa ancora, che non lo possa più.
Ora posso, dopo questa lunga digressione, porre di nuovo
la domanda: che cos’ha da dire il cristianesimo all’Europa? Ebbene, in un certo
senso niente. Niente di nuovo. Niente che l’uomo non abbia da lungo tempo già
saputo o dovuto sapere. C’è una sola cosa che il cristianesimo ha la
possibilità e il dovere di insegnare agli europei di oggi: vedere l’umano anche
là dove gli altri non vedono che del biologico da selezionare, dell’economico
da sfruttare, del politico da manipolare, e così via.
Un Dio ambizioso
Poiché ho cominciato con l’arte, permettetemi di terminare
questa esposizione evocando un’opera d’arte. Nella basilica di Vézelay, in
Borgogna, 40 chilometri a est del minuscolo villaggio dove è nato mio padre,
nel nartece si trova un timpano scolpito che rappresenta l’evento della
Pentecoste, cioè la discesa dello Spirito Santo sui dodici. Attorno a questa
scena lo scultore sconosciuto ha rappresentato la missione degli Apostoli
presso i diversi popoli della Terra. Fra questi popoli ce ne sono molti che non
sono mai esistiti se non nell’immaginazione dei geografi dell’antichità. Così
si vede un gigante che si piega per carezzare la testa di un cavallo come si fa
con un cagnolino, mentre un nano ha bisogno di una scala per salire su quello
stesso cavallo. E si vedono figure ancora più spaesanti: degli uomini le cui
orecchie sono così grandi che si potrebbero prendere per scudi, uomini il cui
naso assomiglia al grugno dei maiali, eccetera. Quest’opera è tipicamente
europea proprio perché richiama alla memoria l’esistenza di ciò che è
assolutamente extraeuropeo. La lezione che io ne traggo personalmente è la
seguente: Dio si fa dell’uomo una rappresentazione più ampia di quella che si
fanno gli uomini stessi. L’antropologia divina è più inventiva di quella umana.
Dio rivolge all’uomo uno sguardo più positivo e più ottimista di quello che
l’uomo ha su se stesso. Di conseguenza, Dio ha più ambizione per l’uomo di
quanta ne abbia l’uomo per se stesso. Ci sarà Europa tanto a lungo quanto
l’ambizione umana si accenderà al fuoco dell’ambizione divina
16 marzo 1978. Rocelli: "Moro, un sacrificio sempre più vano"
“Aldo
Moro non è mai stato abbandonato. Casomai l’abbandono avvenne dopo la sua morte
quando la politica è degenerata negli scandali e nell’incapacità di
relazionarsi con i cittadini. E’ vero che dopo la tragica vicenda di 40 anni fa
le Brigate Rosse ed il terrorismo cominciarono la loro parabola discendente e
che ci fu il ritorno nel nostro Paese ad una democrazia che, avendo superato la
prova di forza più impegnativa dal dopoguerra, poteva considerarsi stabile. Ma
al tempo stesso la morte di Moro non impedì quello scivolamento della politica
che lui stesso cercava di evitare in ogni modo: uno scivolamento verso
l’incomunicabilità, verso l’incomprensione tra il “potere” e la società
italiana”.
Gianfranco
Rocelli, 80 anni tra pochi mesi, è uno dei rari, diretti testimoni veneziani di
quanto, a livello politico nazionale, accadde nel culmine degli anni di piombo.
Deputato della DC tra il 1972 ed il 1992 e a più riprese sottosegretario
(Lavoro, Lavori pubblici e Commercio estero), in quella mattina del 16 marzo
1978 si trovava nell’emiciclo di Montecitorio, “nel giorno della presentazione
del governo Andreotti” che doveva sancire l’appoggio del PCI. “Un’operazione
che Moro, assieme a Berlinguer, aveva preparato per superare l’instabilità
politica ed economica, con l’inflazione giunta oramai al 20%. Un’operazione che
va letta anche come sfida agli USA: il presidente Carter si oppose infatti
apertamente alla partecipazione dei comunisti nei governi dell’Europa
occidentale. In tutto questo i gruppi terroristici sapevano di poter agire in
uno scenario di debolezza democratica. Quella mattina, quando l’Aula venne
raggiunta dalla notizia della strage dei cinque agenti della scorta (Oreste
Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi) e
del rapimento di Moro, il governo ricevette l’immediata fiducia (con 545 voti
favorevoli e solo 33 tra contrari e astenuti). Ma restammo lì ad interrogarci,
tra incredulità e sgomento, intuendo però subito che per il Presidente sarebbe
stato difficile uscirne vivo”.
Il caos.
Era questo l’humus vitale per i terroristi…
“Il loro
obiettivo era quello di far saltare il sistema bipolare che vedeva la DC come
perno ma garantiva al PCI un ruolo di grande rilievo. Ricordo che, pochi giorni
prima del rapimento, Aldo Moro intervenne alla riunione dei gruppi parlamentari
della DC, convincendo tutti che era necessario tentare questa intesa con il
Partito Comunista che, pur non essendo un’alleanza organica, poteva consentire
un percorso di garanzia verso nuove elezioni”.
Lei era per la linea della fermezza o
per la trattativa con le BR?
“Le polemiche su quale linea andava intrapresa
proseguono ancora oggi. Dal punto di vista umano speravo in una soluzione non
drammatica, ma la stragrande delle forze politiche in quel momento si attestò sul
punto fermo del rifiuto di ogni trattativa. Solo il PSI e pochi altri la
sostennero, con un atteggiamento che però giudicai e giudico strumentale,
ovvero come il tentativo di incunearsi in quello scenario bipolare rispetto al
quale si trovava ai margini. La trattativa con i terroristi avrebbe minato
l’interesse supremo nazionale, sarebbe stato un cedimento che non avrebbe
salvaguardato la nostra democrazia, fondata sui sacrifici degli uomini della
resistenza”.
Chi era
Aldo Moro, per come lei lo ha conosciuto?
“Era un uomo ricco di prudenza, di sincerità
intellettuale, capace di convincere coinvolgendo davvero gli altri nelle
battaglie che lui conduceva. Era di un paternalismo all’antica e di grande
cultura democratica. Dopo De Gasperi la politica italiana non ha mai conosciuto
personalità e leader di così alto livello. Nella memoria mi rimangono impresse
le sue parole, ai tempi in cui ero responsabile dei GIP, i gruppi di impegno
politico nei luoghi di lavoro. Mi raccomandava di resistere sempre alla tentazione
dello scontro e della provocazione politica e di perseguire invece la via della
ricerca degli elementi comuni, di dialogo politico”. Lei
apparteneva alla sinistra sociale della DC, come esponente di ‘Forze Nuove’, la
corrente guidata da Carlo Donat-Cattin. Il dialogo con Moro quali canali
seguiva?
“Direi
ben diversi da quella eterna tendenza della sinistra a frammentarsi. Malgrado
rappresentassimo nella DC una minoranza che al suo apice raggiunse l’11%, Moro
e il sindacalista Donat-Cattin si ascoltavano e si consigliavano a vicenda. La
funzione della nostra rappresentanza fu quella di dare maggior forza alle
questioni del lavoro. Moro, pur non avendo il sindacato come terreno
privilegiato di azione, fece proprio quel nostro contributo”.
A casa Rocelli, a pochi passi dall’Angelo Raffaele a Venezia, domina una sfilza di
fotografie di famiglia incorniciate. Gianfranco, “fio de un stramasser
(materassaio)”, è padre di sei figli, oggi cresciuti. Le immagini dei bambini
di un tempo si mescolano con quelle dei nipoti. Delle scartoffie parlamentari
resta poco: con quella piccola truppa in giro per casa “le interrogazioni, le
proposte di legge e i documenti spesso facevano la fine dei fogli da disegno”.
Tra quelle stanze e i corridoi, per un periodo e in quel periodo di terrore e
violenza, bazzicò anche chi dovette farsi carico di dare protezione a quella
grande famiglia che, tra telefonate anonime e segnali inquietanti, era da
considerarsi come bersaglio grosso. Attenzionato.
Pochi mesi dopo l’uccisione di Aldo Moro, nell’ottobre ’78, Gianfranco Rocelli
toccava con mano la scia di tensione che attraversava il Paese: “A quel tempo
ero presidente nazionale degli IACP, l’ente che si occupava di case popolari.
Di ritorno da un impegno a Livorno, appena giunto a Venezia mi accorsi di un
incendio che si era sviluppato nel mio ufficio a Piazzale Roma. Venne appiccato
da un gruppo di comunisti combattenti e distrusse un intero piano
dell’edificio, mettendo a rischio la vita di cinque persone che riuscirono a
scappare per tempo. Il clima era quello delle intimidazioni pesanti, ma non ho
mai ceduto alla paura”.
Secondo
lei è possibile, nell’attuale clima di instabilità e di scarsa credibilità
politica e delle istituzioni, un riproporsi di quella stagione del terrore?
“Credo
che il terrorismo, in quelle forme e con quella sostanza, non possa avere più
spazio. Se non altro perché il terrorismo, per espandersi, ha bisogno di
conquistare contatti nella società. Oggettivamente, nella società
iper-tecnologica nella quale siamo tutti sotto controllo, lo considero uno
scenario improbabile. Però, proprio facendo leva sull’arma a doppio taglio
della comunicazione di massa, il terrorismo può ripresentarsi sotto altre forme:
non c’è solo quello che spara e uccide ma anche quello che sta mostrando ogni
giorno i propri segnali. E’ il terrorismo delle paure indotte, delle fake news,
dell’intolleranza e di tutto ciò che rende impraticabile una convivenza
sociale, da comunità”.
Sempre
fatte le debite proporzioni, anche oggi come 40 anni fa ci si ritrova a fare i
conti con pesanti incertezze sul futuro governo del Paese. Le elezioni del 4
marzo, complice la legge elettorale, hanno dato un esito paralizzante. Il
dialogo, la capacità di tessitura e mediazione, sembrano essere doti politiche
definitivamente sepolte….
“Purtroppo
Moro è in paradiso e non ci si può più rivolgere a lui”, interviene
fulmineamente Rocelli. “Purtroppo oggi ci troviamo di fronte ad una massa di
deputati senza esperienza politica ed amministrativa e la ricerca del dialogo
diventa per questo sempre più difficile. Eppure, per come la vedo io, si
dovrebbe inseguire la strada per formare un governo di scopo. Non solo per
approvare una nuova legge elettorale ma per conquistare ruolo a livello
europeo, con una proposta sociale degna dell’umanesimo che l’Europa
rappresenta”.
Dialogo,
compromesso storico, fusione tra culture politiche: il Partito Democratico
doveva rappresentare il punto di arrivo e, al tempo stesso, di sviluppo di
questa visione. Quale futuro vede per questo progetto attualmente fermo al
binario morto?
“Se il
PD non cambia pelle è destinato a fare a fine della DC. Nel mondo tutte le cose
hanno un loro ciclo e anche in politica arriva un momento in cui si cessa di
essere utili alla realtà sociale in cui si opera. Per la DC e per gli altri
partiti la fine iniziò con tangentopoli ma in realtà era già finito il ciclo
lungo che era iniziato con il dopoguerra. La grande lacuna di questi partiti fu
quella di aver esaurito la loro funzione lasciando dietro di loro solo il
vuoto. Il mio sospetto è che il problema cruciale del PD non sia tanto la
perdita di militanza bensì l’incapacità di comprendere quale sia davvero il suo
ruolo nella società. Le società sono in continuo cambiamento ed è chiaro che se
le forze politiche perseguono il cambiamento solo per il potere si va fuori
strada. Fuori ruolo e lontani dai valori autentici della democrazia. Ecco
perché il sacrificio di Aldo Moro rischia di essere sempre di più vano. Con la
sua morte si è salvato lo Stato, ma se non si comprende e non si riprende
appieno il suo esempio politico, la strada della decadenza politica sarà
irreversibile”.
Col
pensiero tra presente e futuro, Gianfranco Rocelli viene richiamato da un ultimo
flashback, dal retrogusto amaro e condito con una dose di severa rilettura
critica, pratica ormai sconosciuta ai protagonisti della terza Repubblica:
“Durante i 55 giorni del sequestro noi della DC di Venezia ci trovavamo ogni
giorno nella sede di palazzo dei Camerlenghi, commentando, discutendo, sperando
assieme. La mattina del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, con negli occhi
le lacrime e le immagini di quel nostro martire straziato, ci siamo abbracciati
e, dopo aver pregato, ci siamo fatti una promessa. La promessa di essere sempre
degni di quel sacrificio. Purtroppo, qualche anno dopo, ci siamo resi conto di
non essere stati sempre coerenti con la promessa fatta”.
Dall'antica Grecia ai nostri giorni, la storia della festa più divertente dell'anno
GAETANO PACIELLI
Coriandoli,
maschere e stelle filanti sono i segni inconfondibili del
carnevale, una ricorrenza
che coinvolge grandi e piccini in una grande festa che si sviluppa nelle strade
di ogni città. Dolci, buon cibo e musica la fanno da padroni durante i giorni
che precedono l'inizio della Quaresima. Scherzi, risate e finzione sono all'ordine
del giorno. Ma quali sono le origini di questo tempo di sfrenato
divertimento?
Nell'antica Roma
La nascita del
carnevale si può rintracciare nella civiltà greca, prima, e in
quella romana, poi. Infatti, durante
le feste dionisiache e i saturnali, la società rinunciava, per un breve tempo,
a quasi tutti gli obblighi della legge. Ricchi e poveri, liberi e schiavi,
davano sfogo ai piaceri della carne. La religione dell'epoca dava a
questi giorni una doppia valenza: quella della festa e al contempo anche un
rinnovamento simbolico. Il caos sostituiva l'ordine costituito, il quale
tornava "rinnovato" dopo i festeggiamenti e garantito per un altro
anno. Anche l'uso delle maschere è da ricondurre all'antica
Roma. Con la conquista
dell'Egitto venne importata in tutte i territori dominati dall'Urbe la festa
della dea Iside. Come attesta lo scrittore Lucio Apuleio nelle 'Metamorfosi',
questa ricorrenza comportava la presenza di gruppi mascherati. Una tradizione,
questa, che arriva dai popoli della Mesopotamia. A Babilonia, infatti, poco
dopo l'equinozio di primavera, attraverso un grande "spettacolo
teatrale" in movimento,
veniva ri-attualizzato il processo originario di fondazione del cosmo così
com'era descritto nei miti che formavano i testi sacri di questi popoli. La
leggenda narrava della lotta del dio Marduk con il drago Tiamat, che si concludeva con la
vittoria del primo. Una grande processione ricreava allegoricamente l'evento.
Ma non solo. Erano rappresentate anche le forze del caos che contrastavano il
mito della morte e risurrezione di Marduk. Nel corteo vi era anche una nave
a ruote su cui la luna e
il sole percorrevano "la grande via della festa". Questo periodo
veniva vissuto con una libertà sfrenata accompagnata da un capovolgimento
dell'ordine sociale e morale.
Purificazione
Mircea Eliade, noto
storico delle religioni, nel 'Mito dell'Eterno Ritorno", scriveva: "I combattimenti
rituali fra due gruppi di figuranti, la presenza dei morti, i saturnali e le
orge, sono elementi che denotano che alla fine dell'anno e nell'attesa del
Nuovo Anno si ripetono i momenti mitici del passaggio dal Caos alla Cosmogonia". Queste cerimonie, dunque,
avevano una valenza purificatoria e dimostrano, secondo Eliade, il
"bisogno profondo di rigenerarsi periodicamente abolendo il tempo
trascorso e riattualizzando la cosmogonia". In altre parole: la violazione di
tutte le leggi, sociali e morali, mira alla "distruzione" del mondo e
alla "restaurazione di quel tempo primordiale" nel quale si originò l'universo.
In primavera, quando la terra "torna a vivere", si apriva un
passaggio tra gli inferi e la terra dei vivi. Ma le anime, per non diventare
pericolose, dovevano essere onorate e per questo si prestavano loro dei corpi
provvisori fatti con stoffe colorate. Al posto della testa una maschera che
rappresentava i personaggi del mito. Questa tradizione ha poi generato, nel
corso dei secoli, anche alcune maschere italiane. Arlecchino ne è un
chiaro esempio. Dante, nella sua
cantica, parla del demone Alichino; la tradizione popolare francese, invece, lo
identifica come uno dei "personaggi diabolici farseschi". Ma alla
fine, il tempo e l'ordine sociale del cosmo venivano
ricostituiti tramite un rituale di carattere purificatorio comprendente un
"processo", una "condanna", la lettura di un
"testamento" e un "funerale" del carnevale stesso. Infatti,
come accade ancora oggi in diverse città, terminati i festeggiamenti, si
"uccideva" il re carnevale, rappresentato da un fantoccio (veniva
dato alle fiamme, o decapitato, o annegato).
Nel Rinascimento
Con l'avvento del
cattolicesimo e la cristianizzazione dell'Europa, questi riti vennero
aboliti dalla Chiesa. Bisognerà
attendere il Rinascimento e la corte medicea. Nel XV e XVI secolo, a Firenze,
la famiglia de Medici era solita organizzare grandi mascherate su carri
chiamate "trionfi", accompagnate da canzoni da ballo. Lo stesso Lorenzo
il Magnifico fu autore di uno dei più celebri di questi canti: "Il
trionfo di Bacco e Arianna". Anche nella Roma papale del '500
si riprese a "festeggiare" il carnevale con la corsa di alcuni cavalli e
la "gara dei moccoletti": i partecipanti, mascherati, cercavano di
spegnersi reciprocamente le candele. E' in questo contesto storico che nasce la
parola carnevale. Le prime testimonianze dell'uso di questo termine vengono dai
testi del giullare Matazone da Caligano e del novelliere Giovanni Sercambi. Il
nome della festività deriva dal latino carnem levare ovvero “togliere la carne”, e indicava il grande banchetto
che si teneva il martedì grasso, ovvero l’ultimo giorno dei festeggiamenti.
Infatti, con il Mercoledì delle Ceneri ha inizio la Quaresima, un tempo
di digiuno e purificazione durante il quale i credenti praticano l'astinenza
dalle carni.
Il carnevale per la Chiesa
La Chiesa, nel corso dei secoli, ha riabilitato il
carnevale dandogli un'interpretazione "sacra". Il giorno d'inizio dei
festeggiamenti, ad esempio, è stato deciso proprio dalla gerarchia
ecclesiastica. Nei Paesi cattolici, per tradizione, il carnevale cominciava con
la Domenica di settuagesima, ovvero la prima delle nove che precedono la
Settimana Santa secondo il calendario gregoriano. I festeggiamenti
duravano, come anche oggi, circa due settimane, e si concludevano il martedì
precedente il Mercoledì delle Ceneri. In passato, in questo periodo, si
celebravano le Quarantore, pratica introdotta a Milano da San Carlo Borromeo e
rapidamente diffusasi in tutta Italia per riparare ai peccati commessi
durante i festeggiamenti.
Consisteva in in una preghiera di adorazione davanti all'Ostia consacrata,
esposta nelle chiese per due giorni consecutivi (da qui l'origine del termine
quarantore).
Il rito ambrosiano
Nelle diocesi che
seguono il rito ambrosiano, per antica tradizione, il carnevale
termina con la prima Domenica di Quaresima. A Milano e dintorni, dunque, il carnevale dura 4
giorni in più rispetto a quei luoghi dove si celebra il rito romano. Il motivo
di ciò è legato a una leggenda: il vescovo Ambrogio, impegnato in un
pellegrinaggio, aveva annunciato il proprio ritorno nella città meneghina per
carnevale, per poter celebrare i primi riti della Quaresima con il suo popolo. I milanesi lo
aspettarono prolungando il carnevale sino al suo arrivo, posticipando il rito
dell'imposizione delle Ceneri. In realtà, questa differenza sta nel fatto che, inizialmente,
la Quaresima iniziava ovunque di domenica. I giorni che vanno dal Mercoledì
delle Ceneri alla domenica furono introdotti nel rito romano per portare a
quaranta i giorni di digiuno e penitenza effettivi. Infatti le domeniche non
erano mai state considerate, come anche oggi, giorni di digiuno.
Il carnevale oggi
Ad oggi, il carnevale è la festa più divertente
dell’anno, svilita, negli ultimi tempi, dalla pratica anti-cristiana di
Halloween. Nel corso dei
millenni i festeggiamenti hanno perso ogni caratteristica sacra. Sono rimaste,
tuttavia, le maschere, i carri allegorici e il senso della festa. Tra i
carnevali più famosi del mondo ci sono quello di Rio de Janeiro, in Brasile, e quello di Venezia, in Italia. Ma nel Bel Paese
sono diverse le città note al grande pubblico per le sfilate: Putignano,
Viareggio, Manfredonia e Acireale, sono considerate tra le più importanti.
Turisti provenienti da ogni parte del mondo accorrono in queste località per
godere dei maestosi carri allegorici, che ironizzano sui personaggi politici e del mondo
dello spettacolo del momento, e per assaggiare i piatti tipici: chiacchiere,
frittelle e castagnole.
40 anni dopo
Postato da admin [04/11/2017 23:47]
5 novembre 2017 – 5 novembre 1977. Sono quarant’anni
dalla Festa in cui quel trapasso è
avvenuto: intendo la sua traslazione, da questo mondo corruttibile, alle
braccia del Padre. La festa di un santo è il giorno della sua morte, perché segna
la sua Nascita alla Vita. Alle donne al sepolcro l’angelo disse “Non temete…
non è qui. E’ risorto!”. Ascoltiamolo dunque, questo Confessore della fede, perché
è vivente! Il suo operato può riassumersi proprio in questo, nel comunicarci il
senso della Resurrezione. “Risorgeremo infatti” proclamava con una convinzione
non mai scalfita e con volto gioioso, entusiasta come gli Apostoli nel primo
annuncio, quasi ubriachi di prima
mattina (Atti d. Apost. 2,13)… e, gesticolando in questo annuncio, quella persona
pareva gigantesca, avvolta di luce. “Come va, Professore?” (domanda di rito e
generica): rispondeva “Tutto bene!” e spiegava “perché mi finirà bene”. Un
entusiasmo contagioso: messaggio che veniva colto da quanti incontrava: lo
fermavano a ogni passo, nel pur breve tragitto dall’Università (Via Laura) alla
mensa di S. Francesco (piazza SS. Annunziata) e toccavano la sua giacca
istintivamente, compresi da una devozione naturale: un riconoscimento di
santità dato per normale. Per la “sua gente” della Messa del povero a san
Procolo alla Badia Fiorentina egli commentava la liturgia (un uso importante che
Pio XII rafforzò, quello di introdurre talora un laico a spiegare il rito dandogli
valore di colloquio senza abbassare il tono sacrale della liturgia latina) e
faceva un catechismo e una scuola di cultura politica, ascoltava le esigenze
concrete e spezzava il pane del perdono e della speranza, tenendo desto il
quadro dei valori e trasformando i problemi in sogni e in realtà di
accettazione nella preghiera che li riassumeva facendo guardare in alto: e lo
ha fatto dal 1934 per 43 anni! Aveva in mano il cuore di tutti e poteva ben
scrivere L'attesa
della povera gente, da uomo di governo, dopo
aver scritto La nostra vocazione sociale, e Premesse della politica: e continuando poi a tradurre la parola
degli ultimi ne I colloqui della Badia e ne La Badia (foglio di
S. Procolo).
Vi era anche l’eco
delle sue operazioni politiche, della scrittura della Costituzione e dell’opera
di governo e di quella di sindaco e quella del più grande ministro degli esteri
cioè del portatore di pace, che il secolo XX abbia avuto. Ma altri hanno detto
di questa prodigiosa pubblica attività di lui. Io qui vogio ricordare il
testimone Confessore della Fede nella vita quotidiana pur fermandomi ai minimi
consueti spostamenti giornalieri. Il La Pira che ricordo è quello della SS
Annunziata, ove chiudeva la giornata dopo esser passato alla Libreria a
incontrare gli artisti cattolici, per poi rientrare a Casa Gioventù o al
Convento di San Marco ove per tanti anni ha avuto stanza, accanto al Savonarola
(che ogni anno a maggio andavamo a onorare nella Infiorata dinanzi a Palazzo
Vecchio). Il La Pira della “sua” Firenze – la patria di elezione, da quando
questo Levantino di Pozzallo pur fiero
della sua terra, seguì il suo maestro Emilio Betti con cui si laureò. E fece di
Firenze una città mondiale: scrollandola dalla dipendenza francese e laicista
mediante la sensibilità rinascimentale dei santi fiorentini e la cultura medievale
dantesca e giottesca e dei due ordini mendicanti di cui era Terziario, e della Pietà mariana. Da cui partì per giungere,
sulla scala delle icone di Rubliev e della contemplazione ortodossa, a quella santa
Russia che Pio XII consacrò a Maria. E da Palazzo Vecchio i Convegni per la Pace e la Civiltà cristiana,
cui convennero politici di tutto il mondo e i Colloqui mediterranei con Israele e con l’Islam, a superare le
contese nell’unità della comune famiglia di Abramo. E il suo toccare con mano
problemi e movimenti invitando a dipanare le questioni cogliendo in ciascuna le
basi nella storia e nell’ambiente geograficoculturale. Non può scindersi in lui il problema generale del mondo dagli
agganci con il suo popolo delle parrocchie e della carità. La quale è servizio quotidiano: che egli esercitava
avendo a disposizione molti angeli e soprattutto tre Arcangeli che la Chiesa
non dimentica: Fioretta Mazzei, Antinesca Tilli, Pino Arpioni, inseparabili
compagni della sua attestazione di Fede, uniti nella santità: la vera povertà è “servire” (titolo che egli dette a un foglio e a una editrice). Si
tratta di una liturgia ecclesiale che
egli professava fuori di chiesa, a rendere sante tutte le cose. E questa
liturgia aveva nome Politica, la
quale non si riassume nel senso dello
Stato ma nel dar voce alle realtà di base tangibili, a quella società di base che
deve essere curata come una pianticella.
E’ qui il La Pira che riscopre la
vocazione mediterranea del nostro
popolo mentre i più si volgevano all’Atlantico. Il Mediterraneo è realtà che
unisce le varie sponde – sottolineava – mentre gli Oceani le separano. E quando
il nostro orizzonte era il Mediterraneo abbiamo avuto l’unità del mondo (il
diritto romano di cui egli era grande intenditore; e l’interazione tra popoli liberi uniti in una pace universale: e
il Cristianesimo è nato in tale contesto). E nel Mediterraneo si concentra la
famiglia di Abramo. L’Atlantico porta invece divisione nel cuore dell’Europa,
aggregando solo una metà di questa: ma l’Europa come realtà forgiata dal
Cristianesimo non esiste senza l’Oriente (per respirare ci devono esserci due
polmoni). E dunque i colloqui con l’Est europeo cui il colore rosso ci privò di
quella comunione essenziale. Non per nulla Gorbacev riconosce in La Pira il suo
maestro, nella formula “l’Europa è una dall’Atlantico agli Urali”: non può
esistere un’ Europa legata a una sola metà di se stessa, come l’eredità greca
non poté vivere senza l’apporto di quella latina. Da ciò il suo limitato fervore per l’unione europea: importante
se vi si intenda il ritrovo di comuni radici cristiane, non invece se è fomento
di disunione con l’Est. L’America? se ne stia nel suo, non è stata lei a
coniare la formula “l’America agli Americani”? Dunque, né Atlantici né
Europeisti: nostra patria è il mondo, e possiamo parlare di pace solo se lo teniamo
presente. Ma non per unificare il mondo! bensì per convivere nella diversità, che
è condizione insuperabile di esistenza e libertà: la diversità è “costitutiva”
della persona individuale e associata, non esiste la cultura ma le culture, unificando violeremmo ciò
che la storia e la natura hanno impostato. Perciò far centro sul Mediterraneo,
perché si tratta di un bacino collettore di genti diverse, da accogliere nella
loro diversità.
E la dottrina cristiana serve al mondo
quale valvola di sicurezza per orientare non solo le scelte di pace ma per dettare
anche una politica economica: perché questa non sia statalista, ma capace di
esprimere forze interne di base: perché la Società è più grande dello Stato, il
quale ne è solo una delle molte espressioni. E il cittadino non può essere
ridotto al “contribuente”! Ciò vale anche nelle questioni di lavoro: donde la
critica alla società che intenda gestire tutti
i rapporti: sognava di ridare senso al lavoro come forza creativa e, con il
beato Toniolo, i legami corporativi, che lo statalismo ha distrutto: nella
corporazione il lavoratore era difeso nel giusto salario e si riappropriava del
lavoro da cui il capitalismo lo ha alienato. Puntava sulla “proprietà del mestiere”: il lavoro è un aspetto della persona, la
quale non può essere subordinata al posto di lavoro: il Codice civile ha messo
il diritto del lavoro nel campo dei diritti
relativi (pur con titolo a parte), delle obbligazioni, trasformando il lavoro in merce di scambio scambio, mentre deve inserirli nel campo dei diritti reali, cioè nei diritti assoluti.
E penso alla sua militanza politica
cittadina e statuale e internazionale come tessitura a fili intrecciati perché
teneva legate tutte le realtà, operando nel piccolo pensando ai grandi problemi:
curando anche quel Partito che tenne sempre in onore, quel Partito che c’era e
non c’è più: e di cui un po’ tutti avvertono la mancanza. Diceva Pino Arpioni
che da La Pira non ci si attendano miracoli di guarigione, poiché egli fu uomo
politico e i suoi miracoli saranno politici.
Se ne rileggiamo la vita, vedremo che ne ha fatti in molte parti… Eppure uno ne
vogliamo chiedere, e in questa Ricorrenza lo attendiamo come imminente: un miracolo
di resurrezione nella sfera politica:
di un Partito che sia davvero solo “parte” e non gestore del tutto: quel
Partito suo, che era espressione sia pur incompleta del popolo cattolico (e ribadiva
con Leone XIII “Democrazia non può
esserci se non cristiana”) ma che ha voluto suicidarsi, sedotto dal
suicidio che altri partiti hanno attuato. Quella DC da cui si è allontanata
perfino la Chiesa italiana nelle sue gerarchie… Ma proprio in questa
contingenza storica di disaffezione alla politica e di evidente debolezza delle
piccole formule esistenti, una rinascita della Democrazia Cristiana, con quel nome convocante, sarebbe un Dono che
la “gente comune” apprezzerebbe. I più non lo credono possibile, a meno di un “miracolo”: ma la povera
gente - la gente comune - crede ai miracoli… E, se questo miracolo avvenisse… allora rivedremmo un La Pira
beatificato come Dottore della Chiesa, che si propone perché la sua Lezione non
può interrompersi. Ho idea che il Santo Padre sia propenso alla sua
canonizzazione, così come l’attuale Capo della Chiesa italiana che è stato
sempre un fedele “lapiriano” … e come erano d‘accordo di fatto i papi che lo
hanno conosciuto e hanno avuto corrispondenza anche epistolare con lui.
E’ questo l’augurio che lancio in
questa Festa del 5 novembre che segue immediata Ognissanti e la Commemorazione
dei Defunti, cioè di coloro che hanno già accolto il Professore e i suoi
tre arcangeli nel loro abbraccio.
Fabrizio
Fabbrini
4 novembre 2017
Storia. Il Centenario di Caporetto e i caduti "PER LA PATRIA IMMORTALE"
Postato da admin [24/10/2017 19:13]
STORIA. IL CENTENARIO DI
CAPORETTO E I CADUTI “PER LA PATRIA IMMORTALE”
di Gianni Marocco
La Battaglia di Caporetto, o
dodicesima Battaglia dell’Isonzo, venne combattuta durante la Prima Guerra
Mondiale tra l’Esercito italiano e le forze austro-ungariche e tedesche. Lo
scontro, cominciò alle ore 2:00 del 24 ottobre 1917, e rappresenta la più grave
disfatta nella storia dell’Esercito italiano, tanto che il termine Caporetto
divenne sinonimo di sconfitta disastrosa. Con la crisi della Russia dovuta alla
Rivoluzione, Vienna e Berlino decisero di trasferire consistenti truppe dal
fronte orientale a quelli occidentale ed italiano. Forti di questi rinforzi,
gli austro-ungarici, con l’apporto di un’Armata tedesca, sfondarono le linee
tenute dalle nostre truppe che, impreparate ad una guerra defensiva e duramente
provate dalle precedenti undici Battaglie dell’Isonzo, non ressero all’urto e
dovettero ritirarsi fino al fiume Piave, oltre 150 chilometri dal fronte
precedente. L’Isonzo è un modesto fiume che scorre in parte nel Goriziano oggi
sloveno ed in parte in Friuli-Venezia Giulia. Il Municipio di Caporetto è
attualmente Kobarid, in Slovenia. La Battaglia di Caporetto fa da sfondo al
romanzo “Addio alle Armi” (A Farewell to Arms) di Ernest Hemingway, pubblicato
nel 1929.
La sconfitta portò alla
sostituzione del generale Luigi Cadorna, che aveva imputato l’esito infausto
della battaglia alla viltà di alcuni reparti, con il generale Armando Diaz,
assistito da Gaetano Giardino e Pietro Badoglio in qualità di sottocapi di
Stato Maggiore. Le unità italiane si riorganizzarono e fermarono le truppe
nemiche nella successiva prima Battaglia del Piave, riuscendo a difendere ad
oltranza la nuova linea difensiva. L’ultima unità vi si posizionò il 12
novembre, che si considera il termine della Battaglia. Dall’inizio delle
operazioni, il 24 ottobre, all’8 novembre i bollettini di guerra tedeschi
avevano riferito di un bottino di 250.000 prigionieri e 2.300 cannoni. Circa 30
mila i nostri caduti, un milione o più i profughi civili. Incalcolabili furono
i danni materiali subiti.
Non è questa, per esigenze di
spazio, la sede per riesumare le varie cause della nostra sconfitta, che giunse
inaspettata (e sulla quale molto è stato scritto). All’indomani della rotta,
gli Alleati francoinglesi offrirono forze in appoggio all’Italia, nell’intento
di impedire il dilagare degli austro-ungarici verso la pianura padana e verso
il fronte sud francese. Infatti, gli austro-tedeschi scendendo in Italia
avrebbero potuto colpire la Francia dalla linea delle Alpi, ove da tempo non
venivano più mantenute truppe. I contingenti alleati inviati in Italia vennero
dapprima schierati in zone sicure, lontano dalle battaglia, e messi agli ordini
dei loro Comandi e non del Comando Supremo Italiano. Constatata la tenuta
opposta dalle truppe italiane, a fronte dei ripetuti attacchi austriaci, gli
inglesi chiesero di entrare in linea sul Montello, mentre i francesi
continuarono a tergiversare sino alla fine di novembre ’17, quando finalmente
decisero di scendere in campo con una parte delle loro forze.
Una volta assorbito lo shock
conseguente alla ritirata di Caporetto, gli ambienti politici e militari
italiani si adoperarono per stabilizzare la situazione. Il generale Alfredo
Dallolio, Ministro delle Armi e Munizioni, rimpiazzò le munizioni leggere perse
entro il 14 novembre, e per dicembre anche 500 cannoni, ai quali se ne
aggiunsero ben 800 forniti dagli Alleati. E venne inviata al fronte la leva del
1899. Le divisioni francesi inviate in aiuto aumentarono a sei e quelle inglesi
a cinque entro l’8 dicembre 1917 e, sebbene non entrarono rapidamente in azione,
funsero da riserva, permettendo al Regio Esercito di distogliere le proprie
truppe da questo compito. Per nostra fortuna i tedeschi, assolto il proprio
obiettivo di aiutare gli austriaci, trasferirono metà dei propri cannoni e tre
Divisioni al fronte occidentale (Francia) ai primi di dicembre, mentre gli
italiani si rafforzavano rapidamente sulle linee del Piave, del Grappa, del
Montello.
Tuttavia, i 140.000 ufficiali e
soldati francesi ed i 110.000 britannici (più qualche migliaio di statunitensi)
pesarono alquanto allorché, terminate le ostilità, i loro Governi ebbero buon
gioco a sminuire il nostro apporto alla vittoria finale,ed a ribadire il cliché, già dei nostri
nemici, di un Paese avido, inaffidable, pasticcione, che tradisce per
tradizione, con ufficiali ignoranti, poco aggiornati sulle nuove tecniche
militari, e soldati per metàanalfabeti,superstiziosi, facili
alla resa (almeno gli austroungarici non ti castravano, come i guerrieri di
Menelik ad Adua!). Solo gli ufficiali superiori piemontesi sapevano parlare
bene francese. L’inglese era praticamente sconosciuto e questa ignoranza
linguistica complicò assai le comunicazioni ed i rapporti tra ufficiali.
Dopo la rotta di Caporetto, e
l’arretramento del fronte al Piave, le centinaia di migliaia di soldati
italiani fatti prigionieri divennero motivo di vergogna per una parte
dell’opinione pubblica, a volte per le stesse famiglie, e d’imbarazzo per i
Comandi Militari, cui tornava comoda la definizione di traditori e vigliacchi,
loro affibiata per giustificare il disastro. A differenza dei altri
prigionieri, gli italiani furono in pratica abbandonati al proprio duro destino
(a migliaia morirono d’inedia e denutrizione) dalle Autorità della madrepatria,
che imputarono loro l’onta di essersi arresi. Già in agosto, contemporaneamente
all’XI battaglia dell’Isonzo, la “Rivolta di Torino” aveva evidenziato un
sentimento popolare di crescente esasperazione, influenzato dalla Rivoluzione
Russa delFebbraio 1917 e dalla fine del
potere zarista. Con un saldo di varie decine di morti, tra il 21 ed il 26
agosto, la rivolta, che assunse anche un carattere antimilitarista contro la
guerra in atto, fu domata ed i dirigenti socialisti moderati ripresero il
controllo del movimiento operaio.
All’indomani di Caporetto la
classe dirigente divenne più sensibile ai problemi delle masse subalterne,
contadine ed operaie.Fu aumentato il
controllo sui profittatori di guerra e si curò assiduamente la propaganda tra
le file dell’Esercito. Molta attenzione fu rivolta al morale delle truppe. Il
nuovo Comandante Supremo, Armando Diaz, promise, per conto del Governo, di dare
“la terra ai contadini”, una delle promesse non mantenute. Ricordate le immani
sofferenze e la dimensione del sacrificio, sarebbe falso ed antistorico disconoscere
la grande prova di resistenza e di unità che, comunque, al di là di colpe di
comandanti militari e carenze di pubblici poteri, l’Italia sconfitta ed
umiliata di Caporetto seppe poi dimostrare. Quella dei “Ragazzi del ’99”,
esaltata dalla “Leggenda del Piave” di Ermete G. Gaeta (E. A. Mario), che si
diffonderà negli ultimi mesi del conflitto, fino a convertirsi nella più
celebre canzone patriottica italiana.
Ovviamente, la storia delle
guerre vinte non si riscrive, ma grande era stata la stoltezza di entrare nel
conflitto nel maggio 1915, funesto il nostro contributo ad abbattere un Impero,
l’asburgico, che costituiva un fattore di equilibrio nell’Est dell’Europa,miope pure la nostra campagna propagandistica
denigratoria (ispirata dalle Logge massoniche d’Oltralpe), nei confronti del
giovane Imperatore Carlo (fatto Beato dal Papa Giovanni Paolo II) e della di
lui volitiva e cattolicissimamoglie
italiana, Zita di Borbone-Parma, già poco amati alla Corte di Vienna ed ancor
meno a Berlino, allorché cercarono, nel ’17, attraverso i fratelli di Zita,
Sisto e Saverio, ufficiali dell’Esercito belga, una lungimirante,ma scombiccherata pace di compromesso con la
Francia di Clemeanceau,allespalle della Germania, buttando sul piatto
della “trattativa” Alsazia e Lorena, territori allora tedeschi, l’alleato che,
peraltro, proprio l’Austria-Ungheria aveva controvoglia trascinato in guerra
nel ’14 (!)
Diversamente dal passato, se era
stato facile entrare in un conflitto, quasi impossibile era poi uscirne e
questo, probabilmente, non lo avevano previsto neppure il Re, Salandra, Sonnino
nel “maggio radioso”, quando trascinarono il Paese nella folle avventura,
contro il parere della maggioranza
politica. Una “guerra
ideologizzata” (anche se per la Duplice Monarchia lo era certamente meno che
per altri), che ha richiesto sacrifici immensi alle popolazioni, non può
terminare con la sostanziale ricostituzione dello statu quo precedente, come
capitava con le vecchie “guerre dinastiche”, ma bensì solo traumaticamente.Come in effetti fu e si vide ancor più
chiaramente nel ’45.Ciò detto, non si
può negare che grande ed ammirevolefu
la coesione e la forza morale, ancor prima che militare, esibita dal popolo
italiano dopo Caporetto e soprattutto nella Seconda Battaglia del Piave, nel
giugno 1918, quandoaustriaci e tedeschi
tentarono, vanamente, l’ultima grande offensiva per vincere ilconflitto sul nostro fronte.
Il grande Esercito
Austro-Ungarico ai primi di novembre del 1918 si dissolse: i loro soldati oramai
non sentivano più il vincolo con la vetusta Monarchia Asburgica, una
motivazione ai loro ideali e sacrifici per seguire a combattere. Lasciarono le
trincee insanguinate da tante battaglie: dopo anni di guerra desideravano solo
più ritornare al più presto nella loro terra, che per alcuni stava diventando
una nuova Patria (Cecoslovacchia, Jugoslavia, Polonia, Ungheria).
Giunsero, quindi, la nostra
vittoria di Vittorio Veneto (pensata inizialmente come un’azione dimostrativa,
mentre l’Esercito nemico si stava sfaldando, con i reggimenti cechi, polacchi
ed ungheresi che abbandonavano la lotta), una battaglia iniziata il 23 ottobre
1918 – un anno dopo la rotta di Caporetto – l’Armistizio di Villa Giusti,
sottoscritto il 3 novembre, il “Bollettino della Vittoria” del 4 Novembre, che
tutti gli scolari della penisola avrebbero appreso a memoria. Le truppe
italiane che entravano a Trento e Trieste festanti; poi la “Vittoria Mutilata”,
le lacrime di Vittorio Emanuele Orlando alla Conferenza di Pace, il “Trattato di
Versailles” del 28 giugno 1919; l’Impresa di Fiume di d’Annunzio, il “Biennio
Rosso”, il magma caotico del dopoguerra, che accomunava la sorte dell’Italia a
quella dei Paesi sconfitti, Germania, Austria, Ungheria.
Vennero allora cancellati dalle
mappe il Rossijskaja Imperija, l’enorme dominio degli Imperatori, Zar e
Autocrati di tutte le Russie, la Sublime Porta turco-ottomana, la Kaiserliche
und Königliche Doppelmonarchie austro-ungarica, il Deutsches Kaiserreich,
fondato da Bismarck. E persino, supremo schiaffo all’Italia alleata, il Regno
del Montenegro, di Nicola Petrović-Njegoš, padre della nostra Regina Elena,
incorporato nell’artificiale Jugoslavia, costituita in funzione anti-italiana.
Sul principio dell’ “idealismo wilsoniano”, cioè “autodeterminazione” e“ogni nazionalità una patria” – peraltro
disatteso dai vincitori stessi per ragioni geopolitiche e spesso impossibile,
dato l’intreccio e compresenza di diverse etnie – sorsero vari Statideboli, divisi al loro interno da conflitti
insanabili, economicamente asfittici, forieri diulteriori squilibri. I nuovi Stati
alimentarono deleteri nazionalismi. Come in parte nell’Europa-puzzledi oggi, voluta dagli strateghi di Washington
(il solito divide et impera), ma almeno con la copertura UE, allora assente. Il
vecchio nemico austriaco, smembrato, entrò paradossalmente nella nostra sfera
d’influenza, sino al 1938.
In Italia, come altrove, si ebbe
l’apoteosi del “Milite Ignoto”, l’Altare della Patria al Vittoriano. Poi la
Marcia su Roma, il 28 ottobre 1922 e, quindi, l’avvento del Regime Fascista,
guidato dal giornalista interventista, già socialista, Benito Mussolini. Il
soldato caduto, ed il fante in particolare, vennero mitizzati nel loro
olocausto supremo, dedizione assoluta, con la sua trasfigurazione simbolica,
depositaria di valori, virtù, significati, memorie; l’identificazione dei
caduti con i martiri “Per la Patria Immortale”.
ESISTE, IN ITALIA, UNA QUESTIONE SETTENTRIONALE?
Postato da admin [06/10/2017 19:55]
ESISTE,
IN ITALIA, UNA QUESTIONE SETTENTRIONALE?
Da
una conferenza tenuta a Zurigo all’Istituto Svizzero per i rapporti culturali
ed economici con l’Italia nel giugno 2008
di
Achille L. Colombo Clerici
Introduzione
La questione
meridionale italiana, da quasi un secolo al centro del dibattito storiografico
e politico nel nostro
Paese, può sintetizzarsi (se mi è permesso, per economia del discorso,
ricorrere a tesi ed enunciazioni), nel dilemma se debba pensarsi ad un Sud
sottosviluppato “come condizione” dello sviluppo nel Nord o piuttosto ad un Sud
sottosviluppato nonostante il progresso del Nord.
Parallelamente e
correlativamente una questione settentrionale potrebbe oggi, per grandi linee,
affacciarsi in questi termini problematici: se ed in quale maniera il Nord
possa, nell’interesse del Paese, concorrere nella sfida della competizione
internazionale nonostante il sottosviluppo del Sud, o se possa da questo in
qualche modo risultare condizionato.
*
* *
Nella
recente campagna elettorale per le votazioni politiche del 2008 entrambi gli
schieramenti hanno convenuto sulla riconoscibilità di un certo disagio, di un
malessere del Nord Italia a proposito di una sua capacità autopropulsiva
sul piano di un adeguato sviluppo: soprattutto alla luce della sfida
internazionale da affrontare.
Alcuni
sostenendo un’idea più avanzata sul piano del “federalismo”, soprattutto in
campo fiscale; altri più sfumatamente parlando di “regionalismo”, in aderenza
sostanzialmente all’idea di una maggiore autonomia dell’ente locale.
Ma
poi inevitabilmente nelle risposte degli uni e degli altri sono emerse tutte le
tematiche del dibattito generale: dai principi di interdipendenza, di
sussidiarietà, di solidarietà, al policentrismo ed al cosmopolitismo.
Il
tutto inquadrato in un sistema che sia in grado di conciliare le esigenze di autogoverno–partecipazione
locale, con la salvaguardia del principio di unità-solidarietà nazionale.
Valutazione
- effetti
C’è
alla base della questione settentrionale il problema di un’Italia a deux
vitesses, come dicono i francesi.
Un
Settentrione, progredito e dinamico ed un Meridione caratterizzato da una
originaria arretratezza economico–strutturale e da un ridotto dinamismo
economico come è testimoniato, tra l’altro (attesi i recentissimi dati ISTAT),
oltre che dal differente livello di capacità fiscale pro capite, dal più
elevato numero di abitazioni occupate direttamente dai proprietari (indice di
una società statica). Caratteri questi che la politica del welfare state (in
versione italiana) praticata in tutti questi anni nel nostro paese non è stata
capace di rettificare se non in parte.
L’assistenzialismocentralistico verso le regioni del Sud ha dato luogo infatti a ingenti
trasferimenti finanziari alle famiglie senza la contestuale creazione di nuovi
posti di lavoro.
Si
è in tal modo sviluppato nel mezzogiorno un modello di società dei consumi
senza una corrispondente produzione.[1]
Lo
Stato Italiano ha così sottratto ingenti risorse finanziarie agli investimenti
in infrastrutture di servizio, tanto al Nord, quanto al Sud; dove peraltro gli
investimenti realizzati non hanno potuto innestarsi in un efficiente e
funzionale sistema socio-economico di base in grado di consentirne la piena esplicazione
della potenzialità.
Una
Italia a due velocità dunque, dove il sistema dello Stato centralizzato ha teso
sempre alla unificazione del trattamento delle situazioni locali differenti.
Sul piano istituzionale, culturale, fiscale, del regime del lavoro. La logica è
stata quella di rendere più ricche le regioni più povere; mentre sarebbe stato
più corretto equiparare i cittadini delle diverse regioni, sul piano della
fruizione dei servizi.
E
certamente, come ricordava Carlo Cattaneo, non c’è modo migliore per
evidenziare le diversità, che trattare in modo eguale due situazioni
differenti. E’ come imporre un abito della stessa taglia a due uomini l’uno
grande e l’altro piccolo; non va bene né all’uno, né all’altro.[2]
La
storia è nota. I padri fondatori dello Stato italiano, al tempo della
unificazione, (lo ricorda Sabino Cassese nel suo volumetto “Lo Stato
introvabile”) erano inclini al decentramento. Ma lo sviluppo del seme del
decentramento fu arrestato dal prorompere della questione meridionale.
Venendo
ai nostri giorni, nel nostro Paese attorno al '92 la situazione di crisi
causata da una ventennale politica del rinvio delle decisioni sui nodi
cruciali, avrebbe potuto esplodere da un momento all’altro in catastrofe
economico-finanziaria se non fosse stato per la straordinaria vitalità del
sistema economico-istituzionale (la miriade di imprese medio piccole), e per
una sorta di “religiosità civile” fatta di lavoro, di risparmio e di senso di
responsabilità (mostrato anche dai sindacati dei lavoratori) che hanno impedito
al sistema di degenerare.
* * *
Quanto
agli effetti sul piano internazionale, il Centralismo in Italia oltre che
deprimere Nord e Sud ha portato anche alla perdita di un ruolo Europeo.
Perché
esso ha condotto non all’incremento, bensì alla riduzione delle eccellenze
nazionali, quanto mai necessarie nella competizione internazionale.
Non
diversamente va letto quello che può ritenersi l’organigramma di organi,
istituzioni ed agenzie dell’Unione Europea, dove, pur seguendosi il modello
della “capitale reticolare” (delocalizzazioni e decentramenti di funzioni e di
rappresentatività), all’Italia è riservata la posizione di fanalino di coda.[3]
Lo
sviluppo del pensiero più recente
Certo
è che da dieci anni a questa parte il problema dell’Italia a due velocità, che
si chiami federalismo, piuttosto che regionalismo, è diventato la questione
settentrionale del nostro Paese.
Già
nel 1990/1992 la fondazione Giovanni Agnelli di Torino diretta dal prof.
Marcello Pacini nel volume “La Padania, una regione italiana in Europa” apre su
basi scientifiche un discorso ampiamente “avvertito” da quell’opinione pubblica
che, uscendo dall’interna riflessione di illuminate minoranze, scopriva
l’indifferibile urgenza del federalismo.
Tanto
che, nel 1994 lo stesso prof. Pacini, nel documento della Fondazione sul tema
“Scelta federale ed unità nazionale” avanzava l’ipotesi di suddividere il
territorio nazionale (riaggregazioni regionali) in 12 macro-regioni (contro le
attuali 20) secondo criteri di copertura finanziaria o fiscali/territoriali.[4]
Nel
frattempo alcuni critici cavalcavano l’attacco allo Stato centralista ed
interventista; accusandolo di aver profuso invano le proprie risorse
dissanguando le finanze pubbliche nel buco nero, nel pozzo senza fondo del “Sud
assistito”.
L’antistatalismo
liberista e federalista si trasforma in antimeridionalismo: la questione del
Nord è la questione del suo sfruttamento da parte del Sud “parassita”.
La
stessa Chiesa cattolica, nel 1996, con il documento della “Commissione
giustizia e Pace” della Diocesi di Milano ragiona sull’introduzione di un
“regionalismo forte”, di un “federalismo solidale” che poggino su una nuova
cultura delle istituzioni (il passaggio dal cittadino utente-cliente al
cittadino che conosce, decide, controlla: dal costume della passività,
all’etica della responsabilità) e che mirino ad edificare la sovranità dal
basso secondo i più genuini principi della democrazia partecipata. Una sorta di
società amicale nella quale i poteri della cittadinanza siano da tutti
esercitati nell’equilibrio dei diritti e dei doveri e si creino
le condizioni effettive per un incontro efficace tra risorse e bisogni
Le
categorie economiche e le parti sociali, per parte loro, avvertivano l’urgenza
di una riforma istituzionale in campo tributario, rilevando l’esistenza di
vaste aree di sperequazione sul piano non solo geografico, ma anche dei diversi
settori economici, e dei differenti livelli di responsabilità sociale e
personale.
Ricordo
un nostro convegno di ASSOEDILIZIA nell’ottobre del 1995, nel quale l’allora
Sindaco di Milano, Marco Formentini ed il Vice Presidente del Senato Marcello
Staglieno posero fortemente la questione di una riforma fiscale in senso
federalistico, denunciando il sistema dei cosiddetti trasferimenti statali
gravemente punitivo della proprietà immobiliare, colpita dall’I.C.I. (Imposta
Comunale sugli Immobili) in ragione inversamente proporzionale ai tagli dei
trasferimenti stessi dallo Stato ai Comuni medesimi. L’11 ottobre dell’anno
scorso, parimenti Assoedilizia tenne, con l’Università degli Studi di Milano,
un Convegno sul tema del federalismo fiscale nel quale sostanzialmente si prese
atto di alcune preoccupanti distorsioni, in sede di attuazione del principio,
soprattutto a danno dei contribuenti ICI.
I
fondamenti culturali – le diversità italiane
Certamente,
la questione non va posta in termini di rivendicazione culturale o peggio
campanilistica.
Anche
se, sul piano culturale sociale ed etico, esistono ampie sfere di
differenziazione tra Nord e Sud.[5]
D’altronde
si può dire, come qualcuno sostiene, che l’Italia si presenta non a due, bensì
a tre, ed a quattro velocità.
Esiste
una differenziazione culturale: cioè di carattere, di costume, di
mentalità. C’è una linea di demarcazione fra gli italiani che gravitano
su Roma e quelli che gravitano su Milano.
I
primi, provenendo per lo più dalle regioni centro-meridionali non diventano
romani. La romanità è un carattere poco contagioso e comunicabile: è avvezza
alla chiusura secolare propria di chi riceve, per usare l’aforisma di
Aristofane, “nottole ad Atene” e dipende da una burocrazia legata ad un
potere imperituro: quello della Chiesa.
Chi
approda a Roma tende a statalizzarsi.
Chi
gravita su Milano tende a milanesizzarsi (Montanelli): viene conquistato cioè
da quella capacità della città ambrosiana di far sentire a casa propria
chiunque vi operi, perché lo fa sentire attivamente coinvolto nel processo di
costruzione del futuro della città e del paese. Si tratta, nel sistema Italia,
di due culture diverse non antagoniste, ma complementari: per cui
non può pensarsi di ridurre la complementarietà all’omogeneità.
La
civiltà comunale imperniata sul popolo e caratterizzata dalla partecipazione
e dalla solidarietà privata; e la civiltà del principe imperniata sulla
figura del sovrano, che si esprime nei caratteri dell’autorità e
dell’assistenzialismo pubblico (regalie, grazie, condoni, proroghe).
A
Milano e nel settentrione si è affermata la mentalità giansenista volta al conseguimento
del “risultato”[6] e produttrice di
una tensione all’efficienza (nell’assunto morale che l’uomo giusto è colui che
ottiene il successo). Mentalità che ha condotto i nostri concittadini ad
occuparsi, secondo la definizione datane dell’amico Giorgio Rumi, del proprio
“particulare”: cioè dei propri affari, delle proprie cose di famiglia.
E
certamente una società fortemente ripiegata sulla cura dei propri interessi
difficilmente riesce ad esprimere figure politiche o legate alla gestione degli
interessi generali.[7]
Sicchè,
mentre il meridione “esporta” in Italia prevalentemente burocrazia[8] e politica, il settentrione fornisce
prevalentemente “attitudini” economiche anche perché, come si è sovente
dimostrato, chi è un buon uomo d’affari difficilmente è altrettanto buon
politico o buon amministratore pubblico. Questo almeno è quanto è avvenuto
prevalentemente nel corso della storia politica dell’Italia post-unitaria.
Quindi,
già le specificità culturali e di mentalità (dovute alle richiamate ragioni di
carattere storico) la dicono lunga sulle diversità tra Nord e Sud.
Ma,
esiste anche una differenziazione etico-sociale: che, per la verità, non
è strettamente legata a fattori territoriali; anche se (e lo dico sommessamente
e cautamente) qualche differenza, su questo piano, sussiste tra Nord e Sud. Ma
essa non è certamente legata al maggior o minor grado di senso etico delle
popolazioni. Semmai alla maggiore o minore efficienza del sistema istituzionale
e sociale.
In
altre parole c’è un’Italia ligia alle leggi, fedele al dovere fiscale,
osservante i principi della reciproca convivenza. E c’è un’Italia sommersa
che non solo si arrangia lavorando in nero (5 milioni di lavoratori), evade le
tasse, e fa in tal modo già concorrenza a chi non si permette tali
comportamenti. C’è un’Italia che non paga deliberatamente i servizi pubblici,
con l’accondiscendenza di un apparato pubblico che sovente confonde il welfare
state con il chiudere un occhio sul rispetto dei doveri sociali, da parte dei
cittadini, per permettere loro di “sopravvivere” (insomma, la legittimazione
dell’arte di arrangiarsi).
C’è
soprattutto una Italia alla macchia che gestisce o è gestita dalla
criminalità grande, piccola, occasionale o legata al territorio, che
costituisce un sistema anomico dentro il sistema istituzionale.[9]
Situazioni
tutte che costituiscono sacche di malcostume, di privilegio, di sperequazione,
di fronte alle quali il cittadino osservante la legalità non può che
ribellarsi.
Tutto
un mondo di asocialità e di illegalità che si autoalimenta progressivamente
soffocando il mondo della legalità.
* * *
Tanto
che il cittadino “a regime” si sente oggi sempre più insicuro e non protetto;
sempre meno difeso dallo Stato. Non solo sul piano della giustizia distributiva
e dell’equità, ma anche sul piano fisico, della sicurezza personale e della
certezza dei diritti.
La
questione della giustizia è sempre stata il paradigma dei grandi processi
storici. Ed oggi, la questione settentrionale rischia, per traslato, di
identificarsi con la questione morale del paese, trasformandosi nell’ansia
di rinnovamento, di giustizia e di democrazia, che si avverte nel paese;
una democrazia che non sia solo legalità, ma si regga sull’equilibrio tra
libertà ed equità, tra sviluppo e giustizia.
Il
caso della Lombardia
Emblematico
è il caso della Lombardia.
Vero
gigante istituzionale e socio-economico questa regione d’Italia è fra le prime
dieci regioni europee quanto a PIL.
E’
al primo posto in Italia ed al secondo in Europa (dopo il Baden Württemberg)
quanto a densità industriale. Una delle quattro regioni motori d’Europa,
insieme alla Catalogna, al Rhône Alpes, ed al Baden Württemberg appunto.
Sul
versante nazionale essa produce 1/3 delle esportazioni nazionali ed ¼ delle
entrate fiscali erariali e rappresenta la vera locomotiva economica del Paese
come è stato detto.
Sul
fronte internazionale, per la sua collocazione geografica e per la posizione
economica, ricopre un ruolo centrale nei rapporti fra l’Italia e l’Europa:
tanto da essere considerata la vera “cerniera” fra il nostro Paese ed il mondo
europeo.
Ma,
per reggere il passo della sfida internazionale, occorre la competitività sul
piano della funzionalità e della attrattività. Anche perchè, se vogliamo che
Expo 2015 divenga fattore di crescita anche dopo la chiusura dei battenti
dell’Esposizione, è necessario che questo evento trovi già predisposto un
sistema che possa beneficiare dello slancio propulsivo che ne deriva, e non
cada nel vuoto.
E
solo una efficiente rete infrastrutturale di servizi pubblici (soprattutto nel
settore della mobilità delle persone, delle merci e delle informazioni; nei
settori della ricerca, e dei servizi alle imprese, nel settore dell’offerta
culturale e sociale alle persone) può assicurare adeguate risposte.
Ma,
se prendiamo ad esempio il campo dei trasporti, troviamo che la nostra regione
è al 34° posto nella graduatoria europea.
Grazie
al fatto che, pur sopportando[10]
circa il 20% del carico gravitazionale a livello nazionale, le opere pubbliche
in termini di strade e di rete ferroviaria rappresentano poco meno del 10% del
totale del paese; risultando quindi nettamente inadeguate al fabbisogno
regionale arretrato ed insorgente.
-
Ma anche nel campo dell’edilizia residenziale pubblica c’è una forte stasi
degli investimenti; da quando lo Stato si è andato ritirando progressivamente
da questo suo compito istituzionale.
-
Occorre una maggiore autonomia finanziaria ed istituzionale dallo Stato.
-
Infatti, per l’adeguamento infrastrutturale della regione lo Stato risponde con
finanziamenti diretti assolutamente non proporzionali, né alle esigenze, né al gettito
fiscale locale: mentre si avanzano proposte di istituire “tasse allo scopo”
le quali, lungi dal realizzarsi in regime di invarianza del carico fiscale per
il contribuente, andrebbero inevitabilmente ad aggravare una pressione
tributaria già oggi gravosissima.
D’altro
lato, anche la progettazione dei grandi servizi in rete nazionale, suppone tali
e tante interferenze in sede decisionale da parte dello Stato, degli
enti parastatali e degli enti territoriali ed ambientali competenti nelle
diverse gestioni implicate, sviluppando la politica dei veti[11] per la gestione del consenso, (es.
Ferrovie dello Stato – ANAS – Trasporti Alta Velocità – Comunità locali) da
rendere improcrastinabile una radicale riforma in senso federalistico dei
poteri decisionali in materia.[12]
Anche
perché il centralismo assistenzialista dello Stato ha altresì condotto a distribuire
e decentrare la rappresentanza istituzionale (le capitali in rete) ad
esempio, nel campo del controllo, non secondo il criterio del riconoscimento delle
eccellenze locali, bensì sulla base, presumiamo, dell’intento o di assecondare
aspirazioni locali o di creare elementi di vitalizzazione artificiosa delle
realtà periferiche; quando addirittura non si è pensato di mantenere questa
rappresentanza nella capitale, per motivi di comodità (es. Organismo per il
Controllo delle ONLUS, c.d. Autorità per il volontariato). In tal modo in
Lombardia non è stata localizzata la sede di alcuna Agenzia-Autorità nazionale;
se si esclude quella per l’Energia.[13]
E’
ciò che è emerso anche nel corso del Convegno “Terre Lombarde, nella tradizione
e nella prospettiva” promosso, oltre che da Assoedilizia, dalla Associazione
AMICI di Milano, e dall’IRER–Lombardia, nel corso del quale è stata posta
l’istanza di ragionare, nell’ottica europea, in termini di regioni culturali
omogenee come punti di forza nel riequilibrio dei rapporti interni ed
internazionali delle singole regioni amministrative. E’ il tema di fondo di
quell’impegno civile che da oltre 15 anni ci siamo assunti, con la costituzione
della Associazione culturale Carlo Cattaneo di diritto Svizzero con sede in
Lugano, cui ho dato vita insieme ad un gruppo di fondatori di parte italiana,
convinti che una collaborazione culturale fra le due aree potrebbe senz’altro
giocare un ruolo positivo nella costruzione del futuro europeo.
Gli
attuali orientamenti statali
La
questione Settentrionale in Italia, intesa come capacità di competere
delle nostre regioni sul piano internazionale, pur presente nella
coscienza del Paese,[14] è
ufficialmente sconosciuta allo Stato italiano.
Il
documento di Programmazione economico-finanziaria, per gli anni 2009/2013
presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché dal Ministero del
Tesoro, del bilancio e della programmazione economica e dal Ministro delle
Finanze, nulla dice circa la competitività delle aree socio–economiche del
paese; limitandosi a prevedere agevolazioni fiscali per distretti ed a trattare
della competitività dei prodotti sul piano internazionale (valorizzazione del
made in Italy). Quasi che quest’ultima si possa conseguire senza la
competitività del sistema-paese, nel quale la competitività delle singole
regioni trainanti è il pilastro su cui deve poggiare l’efficienza complessiva
italiana.
Miopemente
si dà, in altri termini, per scontato che le regioni forti possano e si debbano
quindi “arrangiare” da sé, dentro il sistema-paese, per conseguire quella
competitività che nessuna politica nazionale si preoccupa neppure di
ipotizzare.
Ancor
oggi, nel I° decennio degli anni 2000, è totalmente ribaltata la logica nella
quale si dovrebbe ragionare nell’interesse dell’Italia intera.
Infatti
si parte dall’assunto che, affinchè il Paese prosperi, il meridione deve
crescere. Ma si arriva a concludere che, siccome le imprese non stanno in piedi
da sole, bisogna aiutare finanziariamente e fiscalmente l’economia e le imprese
meridionali, privilegiandole fiscalmente rispetto alle altre imprese del Paese.
Comunque
non è sacrificando il Nord che si favorisce la crescita del Sud.
C’è
viceversa l’esigenza di una politica di potenziamento del Nord Italia quale
condizione, attraverso il forte aggancio alla realtà internazionale che ne
consegue, dello sviluppo e del progresso anche del mezzogiorno. Il
progresso del Nord deve ridondare a vantaggio del Sud.
Un
vero patto Nord/Nord, nell’interesse del Paese. Se il settentrione progredisce
rimanendo fortemente agganciato all’Europa, tutta l’Italia ne beneficia; e
ciascuna parte del Paese cresce organicamente sviluppando le proprie
peculiarità.
L’esigenza
di una sinergia fra le varie regioni settentrionali nella ricerca di un
federalismo possibile, si è evidenziata peraltro in una ricerca condotta
dall’Università Cattolica di Milano qualche tempo fa (sono stati intervistati
70 “opinions leaders” lombardi sulle attese nella nuova legislatura).
Un
federalismo che, ritengo, potrà conseguirsi anche in forma imperfetta[15] e che certamente costituirà
l’occasione storica per modernizzare la società italiana nel suo complesso e
non potrà esaurirsi in un semplice decentramento di funzioni.
Esso
dovrà implicare un più generale movimento dallo Stato alla società, attraverso
un rafforzamento della società civile. Meno Stato, più società civile, più
mercato. E dovrà costituire un vero passaggio culturale; un cambio di
mentalità. Ma, nel contempo, tutto ciò non dovrà rappresentare una scusa
trincerandosi dietro la quale lo Stato possa sottrarsi (se rimane inalterata la
pressione fiscale) ai suoi compiti istituzionali storici in materia di welfare.
Riflessioni
finali: Un’ipotesi di proposta in tema di federalismo fiscale
Vorrei
dunque delineare lo scenario di fondo nel quale inquadrare conclusivamente il
discorso di un possibile federalismo fiscale.
A
tal fine ritengo utile ricordare alcuni dati emersi dalle ricerche compiute dal
Centro Studi di Assoedilizia e pubblicati nel corso dell’anno 2007 in varie
riprese sul Sole 24 Ore. Dati dai quali emergono alcune anomalie di fondo del
sistema Italia rispetto alla generalità degli altri Paesi europei;
1)
Anzitutto il nostro Paese presenta un rapporto particolarmente squilibrato
tra il prelievo fiscale locale e quello erariale.
E’
ben vero che una costante nell’impostazione fiscale dei paesi a struttura
centralizzata è rappresentata da un maggior livello del prelievo centrale
rispetto a quello locale. Ma la situazione italiana è di molto lontana da
quella che si registra mediamente nel resto dell’Europa.
Il
95% dell’intero gettito fiscale è assorbito dallo Stato, mentre solo il 5% (la
metà di quanto si riscontra negli omologhi Paesi europei) è prelevato
direttamente dagli enti locali in virtù di una autonomia impositiva ufficialmente
riconosciuta (per quanto riguarda sia la istituzione, sia la gestione delle
imposte).
D’altra
parte, la spesa pubblica sostenuta dagli enti locali raggiunge il 27% di quella
complessiva: livello questo superiore di oltre il 50% rispetto a quello registrato
sempre negli altri stati europei a struttura centralizzata.
Il
nostro è dunque un sistema di finanza locale derivata, decisamente basato sul
meccanismo dei trasferimenti, degli investimenti diretti, dei finanziamenti
erogati dallo Stato centrale, e della compartecipazione alle imposte erariali.
2)
Altra anomalia del sistema fiscale italiano rispetto a quelli del resto
dell’Europa (anche questa oggetto di studio da parte di Assoedilizia) è il rapporto
invertito, tra il gettito delle imposte dirette e quello delle imposte
indirette.
Il
primo supera l’altro del 20%; mentre in Francia è l’opposto: il secondo supera
il primo di circa il 30%; in Germania di quasi il 50%; in Spagna del 15%; in
Portogallo del 100%.
La
questione non si riduce ad un mero rilievo statistico, ma presenta riflessi
pratici di grande portata.
Semplificando
concettualmente, possiamo dire che nelle imposte dirette rileva la capacità
contributiva legata alla produzione, più che al consumo del reddito. Esse, in
altri termini, colpiscono nel contribuente non la capacità di spendere, ma
quella di guadagnare. Con la conseguenza che, se i redditi non vengono
dichiarati o lo sono in modo irregolare, si dà luogo all’evasione fiscale.
Ricordiamo incidentalmente che il nero in Italia è stimato nell’ordine del 24%
del PIL; contro il 16% della Germania, il 14% della Francia, il 12% della Gran
Bretagna. Solo il Portogallo ci supera con il 30%. (Dati Banca Mondiale).
Con
le indirette, viceversa, è più facile bypassare i fenomeni di evasione o di
elusione, in quanto il reddito viene inciso fiscalmente, non all’atto della sua
produzione ed in relazione alla sua dichiarazione da parte del contribuente, ma
quando emerge in sede di spesa, di trasferimenti o di investimenti economici.
3)
Altro dato che vorrei rassegnare in questa sede è quello del residuo fiscale
pro capite (equivalente a quanto, per abitante, rimane allo stato centrale
del prelievo erariale nelle singole aree regionali, dedotto quanto lo Stato
“spende” nelle regioni stesse).
Orbene,
al proposito si riscontra che in Lombardia, in Emilia, nel Veneto, (in grado
minore Piemonte ed in Toscana) insomma in quasi tutta l’alta Italia, il saldo è
largamente positivo a favore dello Stato. E sono queste le regioni ricche
d’Italia.
In
Lombardia è di 3.292 € per abitante, in Emilia Romagna di 2.643 €, in Veneto di
2.513, in Piemonte di 316, in Toscana di 180.
Nel
resto del Paese il saldo è negativo: lo Stato quindi paga di più per ogni
abitante di quanto percepisca di tasse. Ma è soprattutto l’evasione fiscale,
maggiormente presente nelle regioni del Sud, a far la differenza. Una recente
ricerca del centro Studi Cittadino e Fisco di Assoedilizia evidenzia come, a
fronte di un certo allineamento tra Nord e Sud del Paese quanto a spesa delle
famiglie e gettito IVA pro capite (corrispondente a quanto viene speso per
abitante) c’è viceversa un gran divario quanto a gettito IRPEF, sempre pro
capite.
La
forbice infatti nel primo rapporto è rispettivamente del 60 e dell’80%; mentre
nell’ultimo rapporto è del 180%; che significa quasi tre volte.
Da
ciò si può legittimamente dedurre che nelle regioni del Sud si guadagna e si
spende più o meno come al Nord (con uno scarto dipendente dal minor livello di
reddito) ma non si dichiarano, in misura maggiore di quanto avvenga al Nord, i
redditi percepiti.
Siamo
in presenza, dunque, di una capacità fiscale pro capite diversa da
regione a regione, per via della combinazione di due fattori: minor reddito e
maggiore evasione.
Incidentalmente
rilevo che i dati statistici dicono che il reddito delle regioni settentrionali
è mediamente superiore del 35- 40% rispetto a quello delle regioni meridionali.
E’
questa la prima difficoltà sul percorso del federalismo fiscale.
Perchè
è chiaro che lo stesso non può realizzarsi tout court attraverso la riserva
integrale delle risorse fiscali alla regione nella quale le stesse si
producono.
Si
darebbe luogo ad una sperequazione evidente, contraria ai principi di
solidarietà e di sussidiaretà, inammissibile in uno Stato moderno e progredito.
E
d’altronde, come l’evoluzione del pensiero politico più illuminato testimonia,
la perequazione non va realizzata attraverso la redistribuzione delle
ricchezza attuata con lo strumento fiscale; bensì mediante il livellamento
qualitativo dei servizi erogati a favore dei cittadini.
Se,
dunque, perequare significa, non far diventare più ricche le regioni più
povere, ma equiparare sul piano della fruizione dei servizi i cittadini delle
seconde rispetto a quelli delle prime, abbiamo già un principio sul quale
costruire un primo orientamento di federalismo fiscale. Le tasse, in altri
termini non debbono servire per la perequazione della ricchezza fra i
cittadini, ma per pagare i costi dello Stato. E la perequazione non dev’essere
necessariamente assoluta, nel senso che nelle diverse regioni il livello di
spesa pubblica pro capite deve essere eguale. La perequazione può e deve
riferirsi solo alle spese relative ai diritti fondamentali, civili e sociali
(esempio sanità, istruzione), e deve tener conto della differente capacità
fiscale pro capite, nelle diverse aree regionali (perequazione imperfetta o
incompleta).
A
questo principio fanno seguito alcuni corollari che riassumono criteri di buona
amministrazione moderna.
Primo
principio: non si può pensare in alcune regioni di contrastare
in tono minore l’evasione fiscale per il fatto che in quelle i cittadini
godono di redditi minori.
Questo
metodo, che suppone l’illegalità fiscale, oltre che essere iniquo nei confronti
dei contribuenti dell’intero Paese, porta solo ad una progressiva accentuazione
del divario tra ricchi e poveri nella medesima regione.
L’illegalità
diffusa, sul piano fiscale, come anche in qualsiasi settore della vita sociale,
è una delle condizioni più influenti sul proliferare dei fenomeni di malcostume
e di malavita isolata o organizzata per il controllo del territorio.
Secondo:
la
trasparenza fiscale richiede che più che con lo strumento delle agevolazioni,
degli sgravi, dei tagli delle esenzioni, si debba intervenire mediante
incentivi rappresentati da contributi e finanziamenti. Sgravi, tagli di
imposte e quant’altro non permettono di visualizzare la misura del beneficio
riconosciuto al soggetto agevolato, tante volte neppure i soggetti stessi. Le
imposte e le tasse si pagano per intero: a fianco e parallelamente può
istituirsi un contributo pubblico ben qualificato, ed ottenibile a determinate
condizioni.
Terzo:
non si può pensare di equiparare le diverse regioni sul piano degli investimenti
statali, sottraendo alle regioni che hanno maggiore capacità fiscale, i
mezzi finanziari necessari agli investimenti strutturali ed infrastrutturali
necessari alla loro crescita ed alla loro competitività.
Quarto
principio: una regola generale da cui non deflettere è la
buona norma di non distribuire opere pubbliche, appalti e cantieri a pioggia,
come mezzo per far ricadere risorse economiche sul territorio, prescindendo da
reali bisogni, (tanto che poi molte delle opere non vengono neppure
realizzate).
Credo
sia questa la luce più corretta nella quale cominciare a parlare di federalismo
fiscale, inquadrando il ruolo della sussidiarietà. Sussidiarietà non solo
verticale, dal pubblico al privato, dallo Stato al cittadino (secondo la teoria
del telescopio cara a Pietro Giarda) ma orizzontale, tra enti ed istituzioni.
Il principio di sussidiarietà e di adeguatezza che, in materia
amministrativa deve improntare i rapporti tra i vari enti locali comporta che
ad operare debba esser l’ente più adatto, nel senso di più efficace, secondo
il criterio della maggior vicinanza al bisogno su cui intervenire. La sussidiarietà
suppone a sua volta una maggiore autonomia degli enti locali, nel differenziare
le politiche in relazione ai diversi bisogni locali, e la parallela
maggiore responsabilizzazione degli stessi nella gestione delle risorse
fiscali, (che implica una responsabilità, sia nella provvista delle risorse
finanziarie sia nella destinazione delle stesse ai diversi bisogni).
Questo
passaggio si ottiene attraverso un riequilibrio del rapporto tra prelievo
fiscale centrale e prelievo locale, al quale dovrebbe essere, alla fine,
affidato il compito di finanziare la spesa pubblica locale.
Ma,
se ci deve essere aumento della capacità impositiva locale (a fronte di un
aumento delle competenze istituzionali degli enti) questo aumento non può non
essere accompagnato da una parallela ed equipollente riduzione della pressione
fiscale erariale.
Certamente
non è federalismo ciò che ha fatto sinora lo Stato Italiano, che ha trasferito
materie, competenze e funzioni agli enti locali, senza trasferire
parallelamente agli stessi le relative risorse fiscali. Costringendo gli enti
locali o a venir meno ai compiti istituzionali (come è avvenuto ad esempio nel
settore dell’E.R.P. non più finanziata dai fondi GESCAL), oppure ad aumentare
la pressione fiscale attraverso un aggravio dell’ICI, l’istituzione delle varie
addizionali o delle tasse di scopo, l’introduzione dei ticket, il ricorso allo
strumento del project financing per tutti i servizi tariffabili e via
discorrendo.
Il
discorso del federalismo istituzionale è complicato peraltro da due fattori.
Anzitutto
nella Costituzione c’è un’“area grigia”; non sono indicati infatti, né le
procedure, né i soggetti che hanno il diritto di occuparsi delle diverse
materie. Non è dunque chiaro chi abbia le competenza di decidere su materie
i cui poteri sono ripartiti fra due o tre livelli di governo. E ciò si
riverbera inevitabilmente sulle regole di finanziamento.
In
secondo luogo l’autonomia locale ed il decentramento delle competenze e
delle funzioni vanno conciliati con i problemi di un Paese che ha differenti
livelli di reddito pro capite, tra regioni ricche e regioni povere e pure fra
le stesse regioni ricche (tanto che qualcuno sostiene che il Paese non sia
ancora preparato ad affrontare una compiuta riforma federalistica).
Se
dunque, in attesa di una revisione complessiva del sistema istituzionale
italiano (che chissà quando interverrà) dobbiamo, come cittadini, subire la
politica del carciofo praticata dallo Stato italiano attraverso una progressiva
riduzione di trasferimenti, di investimenti e spese dirette, di finanziamenti
agli enti locali, è bene pensare ad un federalismo fiscale meno teorizzato e
più pragmatistico. Basato sul principio che per ogni euro pagato in più dai
contribuenti a Comuni, provincie, regioni, e a qualsiasi altro ente locale
(comunità montane, consorzi di bonifica e quant’altro), se ne deve pagare
uno in meno allo Stato.
Solo
in questo modo si potrà pensare alla possibilità di quell’ampliamento della
autonomia impositiva degli enti locali, che è condizione ineludibile perchè
gli stessi possano assolvere pienamente al proprio ruolo.
Comunque,
l’attuale sistema della finanza locale, non può neppure prestarsi, così com’è,
ad una operazione di questo genere. Si avrebbero infatti degli effetti
fortemente sperequati, perchè l’unica imposta in cui si configurano la capacità
e la autonomia dell’ente locale, è l’ICI: appannaggio dei Comuni.
Una
dilatazione di questa imposta, come qualcuno alla fine suggerisce, pur di
venirne ad una con il federalismo fiscale, avrebbe come conseguenza quella di
far pagare il costo dello stesso ad una sola categoria economica: quella dei
proprietari immobiliari, in quanto possessori del bene-cespite (non già
percettori del reddito, dato il suo carattere di patrimonialità). E poi, con i
tagli a destra e a manca promessi o programmati, l’ICI non si sa più chi dovrà
pagarla, ed in che misura.
In
attesa dunque che si realizzi una compiuta riforma istituzionale che attui il
federalismo in conformità alla Costituzione e quindi operi il riassetto della
governance dello Stato e degli enti locali, se vogliamo evitare una asimmetria
(dovuta alle due velocità che si registrano) tra il trasferimento delle
materie, delle funzioni, delle competenze da un lato e la dotazione di una
corrispondente adeguata autonomia impositiva in capo agli enti locali stessi
d’altro lato, dobbiamo ragionare in termini elementari e concreti.
Aumentare
dunque la capacità impositiva degli enti locali,
ma realizzare nel contempo un maggior equilibrio tra capacità fiscale locale
e prelievo locale. Credo si debbano prefigurare due livelli di intervento.
A
livello regionale, occorre istituire la compartecipazione dell’ente
regione alle imposte indirette erariali (anche per riequilibrare il
rapporto sbilanciato che esiste fra le imposte statali).
Per
quanto riguarda viceversa il livello comunale lo strumento della
compartecipazione non è adatto a risolvere il problema del concorso dei city
users nel finanziamento (in rapporto ai servizi goduti) del bilancio del comune
nel cui territorio gli stessi esercitano l’attività lavorativa.
E’
chiaro infatti che la compartecipazione funziona a favore del Comune di
residenza e non di quello in cui i cosiddetti pendolari producono il reddito
lavorativo; consumandovi, nel contempo cinque o sei giorni su sette, i relativi
servizi.
Occorre
dunque (ma bisogna uscire dalla logica semplicistica della dilatazione dell’ICI
perchè, in questo caso, il federalismo si farebbe con grave sperequazione,
giova ripeterlo, a carico di una sola categoria di contribuenti) istituire
una imposta comunale. Imposta che abbia la più larga base imponibile
possibile, in termini di categorie e di contribuenti assoggettati. E quindi
si riferisca a tutti i redditi lavorativi, prodotti nel territorio
comunale, da residenti e da pendolari (imposta detraibile da quelle erariali,
onde realizzare al tempo stesso l’indifferenza del contribuente ed il
trasferimento della risorsa fiscale dallo Stato al Comune).
Degno
di attenzione è il modello di federalismo fiscale concorrenziale, vigente in
Svizzera.
Come
illustrato l'anno scorso in Italia al Centro Svizzero di Milano, esso sostanzia
un meccanismo virtuoso consistente nella realizzazione di una sorta di
competitività del territorio sul piano fiscale.
Le
diverse aree territoriali, presentando infatti ad abitanti ed operatori
differenti offerte di trattamento fiscale ed, al tempo stesso, di livello dei
servizi, sono in grado di esercitare, a seconda della qualità dell'offerta, un
forte richiamo ai fini dell'insediamento di attività, funzioni e popolazione.
Il
sistema peraltro reca in sè la spinta ad un concorso "emulativo"
delle diverse Amministrazioni pubbliche nel migliorare i propri standard
prestazionali.
NOTE
[1] Nel 2004 il tasso di
occupazione delle quattro regioni «migliori» (Trentino Alto Adige – Veneto –
Emilia Romagna – Valle d’Aosta) era quasi al 61,5% della popolazione in età di
lavoro (15/65%): 22 punti percentuali in più rispetto alle tre regioni peggiori
(Calabria – Sicilia – Campania) con tassi di occupazione media pari al 39,5%.
Il tasso, in termini di disoccupazione è parimenti di circa il 20% (es.
Campania 24,9% - Calabria 26,8%, Puglia 20,9%), mentre il PIL medio pro
capite delle prime è circa il doppio di quello delle seconde.
- Una ricerca del
Centro di Politica Comparata «Poleis» dell’Università Bocconi di Milano
fornisce interessanti indicazioni su cinque regioni ordinarie, due del Nord
(Lombardia – Emilia Romagna) e tre del Sud (Campania – Calabria – Puglia)
confermando al Sud una arretratezza istituzionale.
- Il tasso di disoccupazione medio italiano è di circa l’11% della popolazione
attiva (2.500.000 disoccupati in totale). Superiore a quello medio (10%)
dell’U.E., mentre altri grandi paesi industrializzati hanno tassi ben
inferiori: Germania 6,7%; Gran Bretagna 7,2%; Giappone 2,8%; Stati Uniti 5,5%).
2 E’ bene pensare per
l’Europa a regioni omogenee che abbiano una loro autonomia (Giacomo Vaciago).
-Lussemburgo
(Cons.
Ministri, Corte Giustizia, Parlamento, Corte dei Conti, BEI)
-Strasburgo (Parlamento)
-Francoforte
(
Istituto monetario Europeo)
-Dublino
(Condiz.
vita e lavoro)
-Copenaghen
(Ambiente)
-Londra
(Farmaci)
-Alicante
(Armonizzazione
moneta europea)
-Lisbona
(Tossicodipendenze)
-Bilbao
(Sicurezza
e salute sul lavoro)
-Lussemburgo
(sistemi
di traduzione ufficiale)
-Torino
la
formazione professionale condivisa con Berlino e Tessalonica
-Parma l’alimentazione
4 Se ci atteniamo ai
dati ISTAT sui tassi di copertura finanziaria (capacità di coprire
complessivamente le spese di ogni regione con entrate ricavate dalla regione
stessa – gettito fiscale) risulta che solo sette regioni italiane sono
autosufficienti (nell’ordine: Lombardia – Piemonte – Veneto – Emilia Romagna –
Toscana – Marche – Lazio).
Ma se consideriamo i residui fiscali
(cioè la differenza tra entrate e spese per regione a livello «pro capite»)
troviamo che solo quattro regioni (Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto)
presentano un saldo pro capite positivo; tutte le altre presentano saldi
negativi.
-La
situazione italiana dunque è tale per cui quattro regioni, tutte del nord,
finanziano il sistema-Italia sostenendo tutte le altre.
5 Nella terza fase, un
Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC), comprensivo della BCE e delle
varie Banche centrali nazionali, dirige la politica monetaria dell’Unione, in
totale autonomia dai singoli governi.
L’attuazione della terza fase, cioè del
regime di moneta unica, suppone la riduzione delle differenze tra i tassi
d’inflazione o tra i livelli di disavanzo e di debito pubblico, tra i Paesi
membri che devono rispettare cinque «criteri di convergenza»,
detti anche i «parametri» di Maastricht. E cioè:
1)l’inflazione
non deve superare di più dell’1,5 per cento quella dei tre Stati più
«virtuosi»;
2)il tasso
d’interesse a lungo termine non può essere più di due punti sopra la media dei
tre Stati suddetti;
3)negli
ultimi due anni bisogna aver rispettato i normali margini di fluttuazione dei
cambi nello SME e non aver decretato nessuna svalutazione rispetto alle monete
di altri Paesi membri;
4)il
disavanzo, cioè il deficit annuale, non può eccedere il 3 per cento del
Prodotto interno lordo (PIL);
5)il debito
pubblico, cioè il complesso dell’indebitamento statale, non può essere
superiore al 60 per cento dello stesso PIL.
Nell’Unione Europea l’Italia rispetta
formalmente (con le tolleranze ammesse) i parametri di Maastricht.
Cinque i criteri di convergenza
monetaria e finanziaria tra i vari paesi dell’Unione per contenere il debito
pubblico totale ed il deficit annuale di bilancio per garantire la stabilità
dei prezzi e quindi evitare l’inflazione e dei tassi di cambio tra le valute
(per contenere i tassi di interesse e quindi per favorire la crescita e ridurre
l’indebitamento.
Ma il rispetto di tale schema
paradigmatico è ottenuto con grandi costi interni.
Infatti, sul piano sostanziale,
l’Italia non è allineata agli standards – parametri economici e fiscali degli
altri Paesi.
- La pressione fiscale ufficiale (anno
2008), pari al 43,4% del PIL, sconta il peso di un’evasione fiscale di circa il
18% del PIL (oltre 100 miliardi di imposte evase).
Mentre la pressione fiscale reale
calcolata su un PIL depurato della quota di nero, ammonta a oltre il 51% circa.
- Parimenti il sommerso è equivalente
al 24% del PIL. Contro il 16% della Germania, il 14% della Francia, il 12%
della Gran Bretagna.
In tal modo il carico fiscale per i
cittadini a regime sul piano fiscale è di gran lunga più gravoso che nel resto
dell’Europa.
- Al contribuente
italiano a regime, non interessa tanto il dato della pressione fiscale
ufficiale, che è ricavato in rapporto ad un PIL teorico, comprendente una quota
presunta di economia sommersa- per cui siamo al paradosso che, più alta è
l'evasione e minore è il dato indicatore della pressione fiscale. E questa
conclusione si ricava analizzando i criteri esplicitati dall' ISTAT, in
relazione alla determinazione del dato indicante la misura del PIL.
Interessa viceversa il
rapporto tra il carico complessivo del prelievo fiscale (imposte dirette ed
indirette) e dei contributi sociali da un lato, ed il PIL reale-depurato della
quota presunta di sommerso- d'altro lato.
Questo dato è, secondo
i calcoli del Centro Studi Cittadino e Fisco di Assoedilizia, pari a circa il
54%.
A formarlo concorrono
peraltro solo coloro che pagano le tasse (gli evasori pagano solo parte di IVA)
e, fra loro, non tutti allo stesso modo. Alcune categorie sono colpite
maggiormente dalla pressione fiscale, a seconda del regime tributario che le
riguarda.
Solo rilevando il PIL
reale è possibile visualizzare quanto incidono imposte ed oneri sociali, nei
confronti di coloro che effettivamente li pagano, e non viceversa della massa
di coloro che complessivamente operano in Italia, comprendente ovviamente anche
gli evasori fiscali per i quali è assolutamente indifferente il grado più o
meno elevato della pressione fiscale. Poiché essi, secondo l'ISTAT concorrono a
determinare il PIL, ma non concorrono a formare il gettito né erariale, né
contributivo.
La maggior parte delle aliquote fiscali
è «caricata» del peso della quota di evasione da compensare e dunque risulta
superiore a quella media europea.
- Non si tiene peraltro conto della
perdita di capacità di acquisto della moneta, a causa dell’inflazione
intervenuta, da almeno 20 anni, con conseguente rilevante effetto di fiscal
drag.
6 Giuseppe De Rita,
pres. CNEL, 1995 CAIDATE: Convegno «Dalla cultura dell’eccellenza all’etica
della solidarietà» - Il risultato, i processi.
7 Fondazione
Abrosianeum Milano: Rapporto sulla città, 1992.
8 Circa 4.200.000
addetti alle amministrazioni pubbliche (il 22% della forza lavoro italiana) di
cui quasi il 70% è di origine meridionale.
La
Francia ha il 23% della forza lavoro occupata nella P.A., ma il servizio è
nettamente migliore.
9 Nel meridione mafia,
camorra, sacra corona unita, ’ndrangheta controllano il territorio, interferendo
nell’attività di cantieri, ospedali, appalti, opere pubbliche, servizi
pubblici.
10 Su circa 8% del
territorio nazionale il 15,7% della popolazione ed il 17,5% dei veicoli
nazionali in circolazione: abbiamo il 9% delle strade ed il 9,5% delle ferrovie
nazionali.
11 CFR. Lettera: Club
The European House-Ambrosetti. Marzo 2007 Il sistema (non) decisionale del
nostro Paese: un costosissimo autogol.
12 Nella soluzione del
problema creato dall’innalzamento della falda freatica a Milano sono implicate
le competenze di ben 13 enti (Es. Comune – Provincia – Regione – Protezione
Civile – Magistrato delle Acque – Autorità di bacino ecc.)
13 Così, il garante per
l’Editoria, l’Autorità per la privacy, quella per le Telecomunicazioni e la TV,
e l’Antritrust, la Agenzia per la tutela dell’ambiente, l’Organismo di
Controllo delle ONLUS (Agenzia per il volontariato), la CONSOB.
- Una indagine condotta dall’Università
Cattolica di Milano 1999/2000 (Proff. Cesareo – Lanzetti – Rovati) sul tema
«Attese della società civile Lombarda per una nuova legislatura» ha portato tra
l’altro ad evidenziare l’esigenza di istituire per i controlli, Autorities
indipendenti regionali.
14 Cfr. Lettera: Club
The European House-Ambrosetti. Sett. 2006 Crescente bisogno di competitività e
di sviluppo. Deficit di governabilità.
15 Il federalismo
perfetto (che sia originario o conseguito) suppone una autonomia dell’ente
federato per quanto riguarda i tre poteri fondamentali dello Stato: il potere
legislativo, l’esecutivo, ed anche il potere giudiziario.
- Nel quadro di un processo di decentramento delle funzioni lo storico Giorgio
Rumi non escludeva a priori che fosse ipotizzabile l’istituzione di un
Parlamento del Nord, analogamente a quanto è avvenuto in Spagna con il
Parlamento della Catalogna e nel Regno Unito, con il Parlamento Scozzese
(Edimburgo) e quello Gallese: Spagna ed Inghilterra entrambe rette da una
monarchia.
Documento finale presentato a Camaldoli
Postato da admin [25/06/2017 08:10]
I partecipanti all’incontro promosso
dall’Associazione “Codice di Camaldoli” e dalla Democrazia Cristiana,
riuniti presso il Monastero di Camaldoli il 17 e 18 Giugno 2017, per
discutere sul tema: “Il mondo cattolico e l’impegno dei cattolici”, dopo
un ampio libero serrato confronto si sono trovati uniti nelle seguenti
conclusioni:
1. Consapevoli della condizione di
assoluta irrilevanza dei cattolici nella vita politica italiana e del perdurare
di una colpevole e incomprensibile frammentazione della vasta galassia sociale,
culturale e politica che fa riferimento alla dottrina sociale della
Chiesa, noi tutti, senza avere lo sguardo rivolto al passato o nostalgie
di una perduta egemonia, abbiamo lucida coscienza della condizione in cui
vive l’uomo oggi nella società occidentale, nella quale domina ormai un
relativismo morale in cui i desideri individuali si vogliono trasformare in
diritti, contro ogni principio etico e contro la stessa legge naturale.
a) A livello esistenziale e socio culturale
prevale una condizione anarchica definibile come anomìa: assenza di regole, discrepanza tra mezzi e fini,
venir meno dei gruppi sociali intermedi tra individui e Stato. Donde una
diffusa frustrazione morale, che può dar luogo ad atteggiamenti regressivi e di
aggressività individuale e collettiva; una Anomìa anche
a livello internazionale tra varie visioni proposte (es. cinese, islamica,
occidentale o russa) che appaiono incompatibili, se non entro una visione universale
(=cattolica).
b) A livello economico trionfa il cosiddetto “turbocapitalismo”:
la finanza detta i fini alla politica, con rovesciamento di funzioni e
prospettive: con l’avvio all’oscura globalizzazione in cui l’Occidente intende asservire
l’intero pianeta. Da tale rovesciamento di valori e prospettive la
politica, anziché servizio al bene comune, viene degradata a supporto di poteri
finanziari contrari alle esigenze degli esseri umani.
2) È in questa situazione di
valori rovesciati che esplodono fenomeni di scontro e guerre che traggono
spunto anche da parziali visioni di marca religiosa. E intanto ne fa le spese la
stessa concezione sociale additata dalla dottrina sociale della Chiesa.
3) Di qui l’invito a una nuova responsabilità dei
cattolici, a proporsi come elemento unitivo per tradurre nella città dell’uomo la
dottrina sociale della Chiesa, sulla linea delle indicazioni di Papa Francesco all’Azione
Cattolica nel 150° anniversario della fondazione. Nella situazione italiana
sentiamo come prioritario il dovere di concorrere a ricomporre, dopo una lunga
stagione di diaspora, l’intera area di ispirazione cattolica per
offrire una nuova speranza. E lo vogliamo fare non semplicemente da
cattolici individualmente impegnati in una qualsiasi formazione politica, ma da
persone unite in una politica di ispirazione cristiana.
4) Siamo impegnati per la
costruzione di un'Europa intesa non come un grande stato che imponga
comportamenti uniformi ma come ente sovranazionale accomunato nei valori fondanti,
aperto al ruolo decisionale dei singoli stati e delle diverse etnie
linguistiche e del gruppi sociali di base ove risiede la prioritaria sovranità,
una Europa più umana, che tragga linfa vitale dalle libertà civili derivate
dalle sue radici cristiane e all'interno
della quale le peculiarità regionali e locali possano lavorare assieme per il
benessere comune: secondo l’idea di un’Europa dei popoli e non dei poteri
finanziari, una istituzionale sovranazionale secondo la visione dei
fondatori Adenauer, De Gasperi e Spaak e Schumann.
5) Dal punto di vista economico
aspiriamo a un mercato libero e civile, ben diverso da quello di una
concorrenza che si affidi alla contrapposizione di forze come nel progetto
liberale ma che sia controllato dalla società civile con leggi che tutelino le
realtà più deboli; e del pari diverso da quello che vuol interventi diretti
dello Stato come nel progetto socialista. Vogliamo quella economia “civile” libera
da inique imposte su ogni scambio di beni o servizi e sappia tutelare ogni
famiglia e ogni individuo non solo nel campo del lavoro ma anche, e prima di
tutto, quale consumatore di beni: coniugando in modo equilibrato libertà
individuale, responsabilità personale, sviluppo economico e solidarietà
sociale.
6) Riconosciamo il primato della
politica quale sintesi ideale e rappresentanza reale di bisogni diversi e
diffusi, rifuggendo da inutili conflittualità di parte ma che riassuma
i valori sociali di un popolo nella diretta partecipazione dell'Uomo-Cittadino
alla costruzione del futuro per sé e per i suoi figli. La traduzione nella
“città dell’uomo” degli orientamenti della dottrina sociale della Chiesa e
l’applicazione dei principi dell’economia civile alternativi a quelli del
finanz-capitalismo dominante quali impegni per una nuova politica ispirata
all’umanesimo cristiano, cioè della promozione di tutti i valori umani.
7) La politica non deve limitarsi
a strumento per vincere competizioni elettorali, ma agire a salvaguardare e
costruire gli interessi delle generazioni future, a cui garantire quel lungo
periodo di pace, di libertà e di benessere che i nostri padri hanno assicurato
a noi. I valori della Vita, della
persona edella famiglia e dei centri di
vita associata che lo Stato deve riconoscere e tutelare, questi gli
elementi al centro della nostra proposta. “Servire la politica e
non servirsi della politica”era il motto di don Sturzo e dovrà essere il
monito basilare del comportamento di una nuova classe
dirigente. Sosteniamo con forza l'idea di uno Stato che sia espressione delle
sue articolazioni territoriali di base come la carta costituzionale ha
indicato. Viviamo l'autonomia locale come forma di massima libertà, esaltando
la partecipazione responsabile nel rispetto del principio di sussidiarietà portandola anche nella prospettiva
europea. Una sussidiarietà che deve riguardare non solo le istituzioni, ma
anche il rapporto tra istituzioni e società civile: le istituzioni
pubbliche non si sovrappongano a ciò che può far meglio il cittadino singolo o
associato nelle sue istituzioni di base che la tradizione e le leggi di natura
gli hanno posto dinanzi.
Diamo vita, dunque, a un modello di valori coordinato al primato della Vita e della Famiglia e delle
realtà naturali di base, in un assetto democratico italiano ed europeo che
sappia coinvolgere tutti coloro che con entusiasmo e motivazione ideale
intendono mettere a disposizione le propria intelligenza, capacità e
professionalità per il bene comune.
Diamo annuncio della proposta
formulata dall’On. Gianni Fontana di incontrarci il 14-15-16 Luglio alla
Rocca camaldolese del Garda a Bardolino per predisporre - con
rappresentanti delle diverse formazioni sociali, culturali, politiche, delle associazioni
e dei gruppi e di singole personalità dell’area cattolica - il programma dei
democratico-cristiani per l’Italia; un programma che, coerente con
l’ispirazione cristiana, sappia offrire risposte “alle attese e ai
bisogni delle famiglie e dei più indigenti e fragili”, ivi compreso il
ceto medio vittima di un progressivo impoverimento.
Dall’Abbazia di Camaldoli,
18 Giugno 2017
Letto, approvato e sottoscritto.
Gianni Fontana
Ettore Bonalberti
Fabrizio Fabbrini
Antonino Giannone
I punti fermi della nostra carta di identità
Postato da admin [06/06/2017 21:23]
I punti fermi della nostra
carta di identità
Valori da
affermare
La
costruzione della comunità politica sociale economica non può allontanarsi dalle Leggi di natura;
e operiamo per affermare:
-
la vita quale supremo
bene, base di ogni
diritto;
-
la libertà dei singoli e dei popoli, la lotta alla sperequazione, la difesa dello Stato di diritto contro ogni
totalitarismo e contro la globalizzazione;
-
l'etica dei doveri, della
solidarietà e della pace, nel rifiutoassoluto del ricorso alle armi;
ciò
che La Pira ricordava come l’essenza della giurisdizione del pretore romano: “Vim
fieri veto” = “faccio divieto di usare la forza” per qualunque motivo e
obbligare a riporre tutto nel civile confronto sulle reciproche pretese; e
guardando all’operato di Augusto, il Ianus clausus, cioè la chiusura di
quel tempio che custodiva le armi di difesa: una abolizione degli eserciti,
perché la pace si difende con le leggi e non con le armi.
visione personalista e
comunitaria
Affermiamo
il valore della persona
nella sua individualità e
nelle sue formazioni sociali:
-
difendiamo l'esistenza dell'individuo
concreto, a prescindere dalle sue qualità e del suo status: e la libera
espressione di ogni persona
e gruppo sociale.
Ciò
che La Pira indicava a correggere la dottrina del “personalismo”: va bene la
centralità della persona, ma la persona va intesa come individuo concreto, non come
personalità già realizzata. La
vita è legata alla persona singola, il cui valore è pertanto assoluto supremo.
-
additiamo nella famiglia
basata sul matrimonio (unione tra uomo e donna: “uomo e
donna Dio li creò”) il fondamento
della comunità, da tutelare mediante una mirata politica sociale economica
fiscale e mantenendo alto, anche nei mass media, il riferimento ai valori morali naturali
insuperabili;
-
consideriamo prioritaria una politica della casa, da costruire quale ambiente adeguato a consentire una salda vita di relazione;
La
Pira fece di questo punto il centro della sua attività di sindaco, forzando le
istituzioni a una politica della casa come bene primario;
-
tuteliamo la sacralità dell'infanzia
e della adolescenza, il
diritto alla riservatezza,
il senso del pudore, il
valore sociale e culturale della vecchiaia,
la dignità della morte.
Sono
questi i valori primari indicati come un complesso, che riceviamo dalla
tradizione migliore.
a)
Tutta l’educazione va orientata sull’infanzia,non solo come primo momento di
sviluppo della vita ma anche come costante punto di riferimento di ogni
espressione verbale e politica: l’infanzia come depositaria di ogni valore. La
sua integrità va difesa come bene comune: lo sguardo del fanciullo giudica il
mondo, e in base a quello saremo giudicati. Nel piccolo bambino è concentrata
la sacralità dell’Altissimo e tutti i valori del mondo: non scandalizzare il
bambino (meglio legarsi al collo una macina e gettarsi in mare: è la terribile
punizione prevista da Gesù). Occorre che gli adulti guardino il mondo con la
capacità di sguardo del bambino.
b)
l’adolescenza è il momento in cui si sviluppa la sacralità dell’infanzia, il
momento della consapevolezza di quei valori prima solo additati. E’ il momento
più delicato della vita personale e ha bisogno di ogni cura: La Pira ricordava
sempre che per gli ebrei l’ulivo è la pianta “signorina”, che ha bisogno di
tutte le cure di una giovinetta: è l’età della esaltazione dei sentimenti, che
dunque vanno curati nella loro suprema delicatezza. La civiltà si misura sulla
cura dei sentimenti: legati al senso di purezza e di riservatezza, che
l’adolescente esprime con l’innato rossore: contro ogni tradimento, contro la
pornografia dilagante, contro le cosiddette “libertà” che l’individuo si
concede.
c)
il valore sociale e culturale della vecchiaia: dare a questa ultima età della
vita e la più negletta dalla società una importanza fondante per attingere
forze da utilizzare nell’aiuto ai problemi sociali e quale serbatoio di
esperienze e di memorie della nostra tradizione di valori.
d)
la sacralità della morte: l’unico accadimento certo nella vita di tutti. Che in
ciò esprime il valore della effettiva uguaglianza. La morte è il compendio di
una vita, l’esito e l’elemento di giudizio per le nostre azioni. L’onore al
defunto è espressione della vita nel suo farsi storia dell’umanità.
-
sviluppiamo una politica culturale avversa alla pena di morte, all'aborto,
all'eutanasia, ad esperimenti su embrioni umani,
alla violenza su animali e piante
non necessaria alla sopravvivenza;
a)
non accettabile la pena di morte in quanto soppressione di una vita: la quale ha valore in sé e non per le buone qualità dell’individuo; ed
è più grave dello stesso omicidio, perché l’assassino viene sottoposto a
giudizio ed è riprovato, nella pena di morte è lo Stato a compiere quell’atto:
e nessuno si pente proprio perché quell’atto è considerato legittimo.
b)
l’aborto è atto così grave che per parlarne ne abbiamo mutato i connotati: non
osiamo neppur dire che è soppressione di una vita, lo vediamo come atto
chirurgico sul corpo di una donna. Ma – replicava La Pira – esso è uccisione di
una persona, in quanto quella persona già esiste, pur in quella incubatrice
protettiva che è il ventre materno. E i giuristi romani dicevano “conceptus
pro iam nato habetur” (il concepito deve essere ritenuto come individuo già
nato), tanto che era persona già soggetto di diritti, con potestà di avere
eredi in caso di morte prematura. A tal uopo era nominato un tutore a
proteggerlo, si chiamava curator
ventris, cioè un tutore deputato alla cura materiale del concepito nonché
alla tutela del suo patrimonio, di cui il concepito è considerato titolare né
più né meno come una qualsiasi persona già visibile.
-
contro la tendenza a esagerare la filiazione biologica (e la cd inseminazione
artificiale), incoraggiamo
l'adozione contro tutte le restrizioni finora poste dalle leggi: dando il
primato alla adozione degli infanti; l’adozione è un fatto di carità
civile. La Pira ricordava che in diritto romano non v’è alcuna distinzione tra filiazione naturale e adottiva:
di contro è stata la società borghese ottocentesca a introdurre una tale
distinzione.
-
valorizziamo la donna
nelle pari opportunità sociali nonché
nel lavoro di casa, con incentivi che le consentano di creare l'ambito ove si
forma la persona;
-
puntiamo sugli anziani
come base essenziale di umanizzazione, anche in un loro impiego in servizi
sociali per far tesoro di
un patrimonio di esperienza e saggezza al servizio di nuove generazioni;
-
accogliamo extracomunitari
secondo il tradizionale senso di ospitalità del nostro popolo, regolando i
flussi migratori con norme precise che, tutelando la diversità delle tradizioni, consentano la costruzione di una società pluralistica.
pluralismo istituzionale
Secondo
un criterio di pluralismoistituzionale, additiamo
-
le comunità naturali in cui il singolo svolge la sua vita
(vicinato, aggregazioni territoriali, associazioni di lavoro, di cultura, di
spiritualità) come inalienabile presidio di libertà e fonti
primarie di diritto da cui lo Stato trae forza e autorità;
-
il principio di sussidiarietà di ogni istituzione pubblica e il
potenziamento delle autonomie come momenti di scelte di base che
ispirino orientamenti politici nazionali e sovrannazionali;
-
l'irrinunciabile ruolo dei partiti quale ponte fra
cittadini e organi dello Stato,
-
e il ruolo primario dell'azione diretta di
ciascuno, sì che i singoli divengano protagonisti delle scelte nel quotidiano;
-
un rinnovato senso di autorevolezza dello Stato e delle sue
istituzioni quale sintesi delle istanze di base e rapporto tra passato e
futuro.
politica sociale
L'assistenza
sanitaria è luogo privilegiato per l'attenzione
alla persona, essendo la salute un bene primario: il malato va informato
delle cure che gli verranno somministrate; e i luoghi di cura si aprano a presenze
affettive fondamentali al recupero delle forze, contro il modulo di
una assistenza tecnologizzata e anonima che isola il paziente.
Proiezione
dell'ambiente famigliare è la Scuola, strumento di sviluppo della
persona se, libero da infiltrazioni esterne, miri alla formazione
unicamente secondo criteri scientifici che sviluppino il senso critico. Lungi
dall'impostare l'insegnamento in base a precostituite ipotesi lavorative, va
curata la trasmissione del patrimonio classico-umanistico quale
base per la libera scelta di qualsiasi orientamento.
Il
cittadino va tutelato in primo luogo come consumatore e
risparmiatore contro ogni rialzo dei prezzi, inoltre come
lavoratore difendendo l'equità delle basi salariali.
Consideriamo
il lavoro un valore di promozione e la festa un
essenziale momento di elevazione personale e comunitaria. Perciò puntiamo a
-
esigere le migliori condizioni negli ambienti di lavoro;
incentivare il lavoro autonomo e forme di cooperazione;
-
difendere il senso della festa, necessaria pausa
nei ritmi di lavoro, fondamentale difesa della sfera privata, espressione
di valori in cui il popolo trova continuità con la tradizione.
politica ambientale
Nel
cogliere l'allarme sul degrado della natura, proponiamo di:
-
recuperare l'equilibrio della biosfera, contro l'inquinamento atmosferico
ed elettromagnetico, la manipolazione genetica, la dipendenza
energetica da fonti non rinnovabili;
-
tenere lontane le fonti di onde elettromagnetiche dai
luoghi di vitaanche se la pericolosità sia solo
eventuale;
-
sviluppare l'agricoltura come attività umanizzante rispettosa dei
ritmi della natura, puntando su tecniche naturali tese a
potenziare i cicli ecologici;
-
contrastare la violenza solitamente operata (con giustificazioni
di produttività) su animali e piante in moduli non consoni alla loro vita:
stalle ove gli animali sono costretti alla sbarra, frutteti ove le piante – per
una più rapida raccolta operata a macchina, sono costrette a una innaturale
bidimensionalità.
-
ricondurre a misura umana le Città quali ambiti in
cui si sviluppa una vita di relazione e ispirandosi al senso
della bellezza.
-
incentivare le arti e il turismo, curare i beni
culturali e ambientali di cui il paese è ricco.
politica economica
La
politica economica deve subordinarsi alle esigenze primarie di
vita:
-
difendere il potere di acquisto per i beni essenziali;
-
ridurre drasticamente la pressione fiscale,
non
di qualche punto ma portandola al valore normale nominale del 5% annuo
(esattamente quanto è il valore reale naturale della rendita agricola o della
produttività del denaro) valutando furto e rapina ogni quota superiore;
-
realizzare piena occupazione favorendo piccole attività,
promuovendo l'artigianato e l'agricoltura come le
due più nobili attività dell’uomo;
-
orientare la politica creditizia al sostegno di
esigenze di base dei singoli e dei nuclei famigliari.
politica internazionale
La
comunità internazionale esprime una fratellanza universale basata
su una norma fondamentale che pone ogni Stato, di qualunque
dimensione o densità demografica o grado di sviluppo, in condizione di parità
giuridica. Da ciò:
-
lo sviluppo autogestito dei popoli, stimolandone l'autosufficienza
economica fondamento di indipendenza, contro una economia globalizzata,
ripudiando il ricorso alle armi o al ricatto economico;
-
una politica mediterranea basata sulla unità della famiglia di
Abramo (ebrei, cristiani, islamici), facendo dell'Europa
(dall'Atlantico agli Urali) il riferimento di un ordine civile mondiale;
-
l'Unione europea quale sistema sovrannazionale di
Stati legati dal comune sentire e non quale Stato unitario
mirante a una egemonia mondiale.
continuità
Ci
riconosciamo nella bimillenaria Dottrina sociale della Chiesa e
vogliamo darne attuazione.
Intendiamo
inoltre conservare memoria dell'esperienza politica del movimento
cattolico, dall'Opera dei Congressi a don Sturzo a Degasperi, nonché
dell'opera di taluni pensatori-guida quali don Mazzolari,
Maritain, La Pira e del "Cattolicesimo sociale" da Ozanam a Toniolo a
Mounier ai Codici sociali di Malines e di Camaldoli.
rappresentatività
Vogliamo
offrire la possibilità di esprimersi politicamente a quanti non
hanno trovato finora nei partiti organizzati uno strumento conforme ai
loro ideali, consentendo al popolo negli spazi quotidiani di esprimere
valutazioni e indicare soluzioni;
con
un sistema elettorale proporzionale, per la rappresentatività
delle linee politiche e delle tradizioni culturali e il rispetto dei luoghi di
elezione;
ci
poniamo oltre i precostituiti schieramenti, secondo la formula di
don Primo Mazzolari "né a destra né a sinistra, né al centro, ma in
alto", guardando ai valori da attuare e al bene
comune che è bene concreto di persone.
Fabrizio Fabbrini
Pillole omeopatiche per gli Amici democristiani
Postato da admin [25/05/2017 23:06]
Pillole
omeopatiche per gli Amici democristiani
Prima
pillola omeopatica
(da
digerire con molta acqua, nella prima settimana di cura)
1°
Premessa:
Perunapresenzadeicattoliciinpolitica
La politica è servizio
orientato al bene comune, che è bene di persone concrete nella loro singolarità
e nella dimensione sociale in cui vivono: è ricerca di soluzioni adeguate ai
problemi di fondo e a quelli quotidiani, nel tentativo di scoprire dietro ogni
ruolo la persona che lo riveste, far emergere dietro ogni potere l'umanità di
chi lo gestisce. E la proposta politica nasce dalla consapevolezza di un
disegno culturale di base, che si imposta secondo prospettive morali di fondo:
e non vi è progetto culturale e politico che più di quello impostato dalla
dottrina cattolica sia finalizzato alla liberazione dell'uomo.
Si tratta della cosiddetta
"Dottrina sociale della Chiesa" (o del Magistero sociale della
Chiesa) elaborata nei concreti contesti storici lungo il corso di duemila anni,
enunciata progressivamente dai papi, riassunta negli ultimi due secoli in
specifiche Encicliche sociali, filtrando i contenuti evangelici in
proposte sociali stimolanti: prezioso bagaglio culturale da offrire anzitutto
ai cattolici (che ne devono acquisire la custodia) e inoltre al mondo intero,
per il quale è stato confezionato. E' da aggiungervi il contributo di
esperienza del Movimento cattolico che, dai tempi del beato papa Pio IX,
ha tentato di tradurre quei principi in opere sociali e in formazioni
politiche, non sempre con successo ma quasi sempre con dedizione e con rispetto
delle esigenze concrete della vita.
Questo tesoro non deve
essere tenuto nascosto: dobbiamo appropriarcene e subito distribuirlo, senza
farci fuorviare da proposte mondane (cosiddette "laiche") le quali,
nate da ben altri progetti culturali e da tutt'altre prospettive, non ci
appartengono.
Occorre partire da lontano,
ricostruire l'identità del pensiero sociale cattolico e tentare una lettura
attenta della storia di questi due secoli, per uscire dalla cultura dominante
inquinata da ideologie; e così, liberi da paure, considerare la politica
come parte dell'azione storica costruttrice della Casa comune, nella certezza
che i principi emersi dal mondo cattolico valgano per l'uomo di sempre. La
Chiesa addita non solo speranze ultraterrene, ma anche un itinerario concreto
nel mondo quaggiù: e la politica è - disse Paolo VI - "il nuovo nome della
carità", anzi "l'espressione eroica della carità".
una forza politica cattolica
E' dunque opportuna una
forza politica che si richiami ai valori cristiani e immetta nell'azione
sociale una carica di speranza, affermi la forza della verità
come stile dell'agire e punti sul rinnovamento delle coscienze.
E' venuta l'ora in cui i
cattolici ricomincino a pensare e a prendere coraggio nel proporre la
costruzione di una forza politica che offra programmi e princìpi e soluzioni
concrete al paese. E agiscano non già per obbedienza a comandi della gerarchia,
ma in quanto Laici consapevoli di essere essi stessi, nel campo sociale e
politico, veri “sacerdoti” dotati di un carisma preciso (il Concilio lo ha
ricordato). E dunque agiscano con la consapevolezza di essere chiamati a
tradurre in forme concrete - con responsabilità non delegabile -
quel patrimonio di idee che la storia ci ha consegnato.
... per la sfida del
nostro tempo
Tale forza consapevole è
importante perché il nostro tempo ci convoca al banco di prova di una
testimonianza che ci chiama in causa sulla base del nostro stesso status di
cristiani. E in presenza di prospettive politiche provenienti da poli avversi
tra loro ma altrettanto lontani dalla prospettiva personalista e comunitaria
che ci convoca, due poli entrambi legati a una visione consumistica edonistica
materialistica, è urgente additare in una proposta politica i valori
indispensabili alla difesa della persona e dei suoi inalienabili diritti,
richiamando ogni persona al senso del dovere.
dalla attuale divisione... a una prospettiva di
speranza
Ma i cattolici sono divisi.
Crollata l'unità politica - per aver essi stessi distrutto quel Partito
che era un punto concreto di riferimento - essi vanno ora (in coalizioni
diverse e tra loro avverse) ad appoggiare scelte che non hanno a che fare
con quella cristiana. Eppure occorre ricostruire quella perduta unità,
occorre farlo per colmare il vuoto che si è creato e che ovunque si avverte:
vuoto politico e morale, vuoto di idee e di proposte. Per rilanciare una
prospettiva e ricominciare a progettare, coscienti che il mondo attende la
traduzione del messaggio evangelico.
Del resto la gente non
riesce a capire... perché mai dalla vita quotidiana siano spariti i segni
del sacro, dagli ospedali il crocifisso, dalle scuole l'insegnamento religioso;
e perché mai si debba consentire ai medici di procurare l'aborto, ai registi di
profanare la morale; e perché mai l'economia - che non può essere finalizzata
all'interesse di pochi - non debba rispondere a principi morali; e perché mai
la politica non si impegni a difendere i deboli, i bambini e i vecchi, dalla
pressione costante di una vita sociale da cui è scomparsa perfino la pietà...;
e perché mai l'esigenza della pace, così diffusa nel comune sentire, non determini
i programmi politici.
riandare alle sorgenti
In sintonia con tali vaste
attese vogliamo riandare alle sorgenti, ai fondamenti, ai principi onde
scaturisce la nostra speranza. Dove sono i programmi che orientavano fino a
ieri il mondo cattolico? dove il personalismo comunitario, il pluralismo
istituzionale, il solidarismo sociale? dove la "terza via" tra le due
proposte economiche (capitalismo e socialismo), dove l'esigenza di una
rivoluzione morale, dove la pietà per un pianeta che abbiamo offeso e ferito?
dove un programma per la famiglia e per l'infanzia e l'indicazione di valori a
una gioventù smarrita, cui si offre solo possibilità di sfrenatezza morale e
droga e rumore... e morte?
esiste uno "specifico cristiano" in politica
Ecco allora l'esigenza
di una alternativa. E' estremamente opportuno che il mondo cattolico abbia
una visibilità politica, per dare fiducia nella possibilità di cambiamento.
Certo i cattolici non sono vincolati a una particolare scelta politica;
tuttavia vi sono principi di ordine etico politico che li identificano:
soprattutto nel ribadire i valori della famiglia, e nella difesa degli ultimi e
nell'additare alle nazioni l'unità del genere umano. Esiste una visione
politica cattolica ispirata alla dottrina sociale della Chiesa, radicata sulla
Parola rivelata, sperimentata nell'intervento generoso di molti nelle povertà
di base. V'è uno specifico cristiano nella politica: princìpi irrinunciabili,
che non sono di destra o di sinistra, e neppure di centro, ma si conformano a
esigenze primarie e a situazioni concrete.
puntare in alto, ai valori permanenti
Per questo non saremo
schierati a destra né a sinistra; e neppure al centro - se Centro significa
stare a metà strada - ma guarderemo avanti e verso l'alto: per trarre le
condizioni del presente a un futuro impostato secondo esigenze di base e valori
supremi, guardando nella concretezza dell'oggi per costruire secondo quei
valori che ci trascendono e ai quali adeguarsi sempre più. Guarderemo dunque
non a destra o a sinistra ma in avanti e verso l'alto, là dove stanno i valori
da attuare. "Né a destra né a sinistra, né al centro, ma in alto!":
questa formula di don Primo Mazzolari ci serve per non etichettare il
comportamento in base a leggi elettorali.
Il nostro tempo ci convoca
a una azione sociale e politica dimensionata alla portata cosmica della sfida
che è stata lanciata e che non possiamo ignorare o rimandare: la sfida di fondo
non già tra l’uno o l’altro programma, ma quella, sempre rimandata o evitata,
tra tra il primato della persona o quello dell'ideologia, tra chi addita
valori e chi difende privilegi.
2°
Per un primo
riesamedel Movimento Cattolico
Il Novecento - afferma il
grande storico Chabod - è stato il secolo della presenza cattolica nell'agone
politico, e questa rappresenta dunque la grande novità, assieme a quella del
Partito comunista. Venivano i cattolici da una esperienza fortissima, epica,
quella del "non expedit". Occorre ricordarlo, nella linea di
quella "purificazione della memoria storica" che il Papa Wojtyla dice
essere il punto decisivo per una limpida lettura della storia. Era la risposta
dei cattolici alla offensiva che il nuovo Stato italiano con il Risorgimento
nazionale aveva portato contro la Chiesa e contro la cultura e la tradizione
del nostro Paese.
scelta politica e scelta sociale
L'Intransigentismo
dell'ultimo Ottocento – cioè il rifiuto di collaborare con quel tipo di Stato -
fu una scelta politico-sociale di estrema importanza. I cattolici si astenevano
così dalla vita politica di uno Stato massonico dedicandosi ad aiutare in
concreto il popolo attraverso l'impegno sociale. E di qui verrà, in seguito,
l'azione politica, intesa quale sviluppo delle opere sociali e che in esse
trova giustificazione, e che si corrompe quando invece viene smarrita tale
dipendenza.
Per questo nella storia del
movimento cattolico troviamo Antonio Federico Ozanam e le sue Conferenze di San
Vincenzo, opera di cultura e di civiltà. Alle origini delle quali è la
spiritualità di "monsieur Vincent" del XVII secolo e i carcerati e i
condannati ai lavori forzati e gli appestati, e i Lazzaristi e i Servitori dei
poveri e Luisa de Marillac e le Figlie della Carità, le sorelle "cappellone",
segno e termometro di una società cristiana. Vincenzo, cioè anche Federico
Ozanam: le cui Conferenze di San Vincenzo sono l'atto di nascita del movimento
cattolico verso la metà del secolo XIX: con mons. Affre, vescovo di Parigi che
nelle quarantottesche barricate scopriva una nuova terra di missione: ove un
popolo privato dei diritti dalla società borghese era stato ingannato dai
rivoluzionari che gli consegnavano fucili e quindi nuove oppressioni.
Ozanam quindi come punto di
riferimento: Ozanam e il padre Lacordaire predicatore di Notre-Dame, che
coglievano la forza cristiana delle libertà moderne su cui invece la
Rivoluzione francese aveva impostato la tirannica ipoteca borghese. E’ l’invito
alle opere di carità concreta e tangibile: e Ozanam e Lacordaire furono
riferimento ideale per i laici cattolici, iniziando dal reclamare una scuola
cattolica per formare le nuove generazioni.
Dall’intransigentismo nei
riguardi della società laicista sorgerà l’Azione Cattolica entro la vita di
base di uno Stato contrario alla Chiesa: e le Leghe contadine che davano
coscienza al mondo contadino di rivendicare una sicura tradizione cattolica
nella vita sociale e nella cultura) e le Casse rurali assieme a quelle
Artigiane, che rispondevano alla esigenza di sostenere il mondo produttivo di
base (quello contadino e quello della attività artigianale) mediante anticipi
in denaro a basso costo.
Su questa base le
parrocchie ebbero una funzione economico-sociale di importanza primaria, così
come tutte le realtà di base, dalla famiglia allargata, quella contadina, alle
aggregazioni vicinali (vicini da vicus, villaggio) ai piccoli
comuni rurali, alle associazioni di quartiere nelle città; e il ,mondo della
base si espresse direttamente nei confronti dei pubblici poteri pur senza avere
diritto di voto, e fece sentire la sua voce: la voce di un paese reale
di fronte alle istituzioni statali che costituivano il paese legale. Una
contrapposizione vincente, perché in definitiva il paese legale deve dare voce
al paese reale del quale esso ritiene di essere espressione.
Il divieto fatto dal beato
Pio IX Mastai Ferretti - cui lo Stato italiano aveva sottratto il potere
temporale riducendolo a prigioniero nella stessa Roma - il divieto ai cattolici
di collaborare con quello Stato che non li rappresentava era lo stesso divieto
che San Paolo pose alla comunità cristiana, invitandola a fare da sé le sue
scelte civili e a trovare da sé al suo interno i suoi magistrati e i suoi
tribunali: il che significa indipendenza e libertà nelle basi di vita.
Era questo che Pio IX
prescriveva: non un abbandono della vita politica, ma sostituirsi a coloro che
fanno politica impegnandosi subito e direttamente nel sociale, a curare le
ferite, le disuguaglianze, a dare speranza e libertà al paese.
Democrazia
come governo di base pluralista
Ed era questa la vera Democrazia:
la quale nel linguaggio antico dei greci di Atene significa non già “Potere del
Popolo” come con cattiva tradizione viene comunemente detto, bensì Potere dei Demi,
cioè delle piccole realtà territoriali in cui si differenziava lo stato
ateniese. V’erano circa 150 Demi nella piccola Attica (4.000 kmq in
tutto), di circa 24 kmq ciascuno (un distretto che conteneva un villaggio),
circoscrizioni rurali sorte spontaneamente e che presero a governare dalla base
quel territorio, entro cui le singole famiglie avevano sede e protagonismo: e
in tali Demi le decisioni erano prese nella assemblea rurale. Quei
piccoli cantoni di realtà famigliari reggevano la intera democrazia nell’Attica
mandando le decisioni ad Atene, ove l’assemblea cittadina accoglieva le
proposte dei singoli Demi. Ed era vera democrazia finché l’assemblea
cittadina non si affidò ai Demagoghi.
Ebbene, nell’Italia
contadina delle parrocchie rurali le decisioni sociali si prendevano a livello
di base: e tale Democrazia di base - essendo il popolo tradizionalmente
cattolico - metteva in atto necessariamente una democrazia “cristiana” nei suoi
valori e nei suoi programmi e nella composizione famigliaree nella prospettiva ideale del suo agire:
cioè nel mettere in pratica concreta – sociale / politica – i princìpi del
Messaggio cristiano.
Il che ci fa intendere la
frase del papa Leone XIII - così attento ai problemi sociali da stendere il
primo vero manifesto politico cristiano aggiornato nella enciclica Rerum
novarum – secondo cui “la democrazia, o sarà cristiana o non sarà affatto
democrazia”. In effetti nessuna democrazia avulsa dal messaggio cristiano può
mai esprimere una forma di Stato che riconosca centralità al popolo, che
assicuri libertà e indipendenza alle comunità di base. Per cui lo Stato -
espressione pubblica globale dei suoi componenti - deve riconoscere e tutelare
i diritti dei singoli e delle comunità naturali di base ove essi vivono la loro
vita. Qui è la sostanza e anche la forma di quello che sarà l’art. 2 della
Costituzione, che il prof. La Pira mise a fondamento di tutto l’edificio
costituzionale.
Così lo Stato “deve”
riconoscere e tutelare quei diritti, i quali non sono prodotti dallo Stato ma
che lo Stato si trova dinanzi nella vita reale; e sono questi diritti di base a
fondare e a dare legittimità e autorità allo Stato. Perciò tale democrazia è
cristiana e “pluralista” cioè emerge da varie aggregazioni di base, diverse una
dall’altra. Essa infatti è costruita sulle singole comunità quale espressione
di queste, non può essere calata dall’alto, né può essere un blocco unitario,
deve essere “plurima”, perché molteplici sono appunto le aggregazioni naturali
di base che esprimono questa vitalità.
Dunque una democrazia pluralista:
intendiamo per pluralismo non già la possibilità di esprimere opinioni
diverse (il che è doveroso) bensì la struttura che esprime la consistenza di
una pluralità di basi sociali e di aggregazioni libere e indipendenti diverse
tra loro, ognuna sovrana nel luogo in cui le singole famiglie vivono la loro
vita. E poiché nelle parrocchie e nei villaggi e nei borghi e nelle contrade
vivono persone diverse, questa democrazia rispetta e tutela le autonome
espressioni dei singoli, dando a ogni singolo di realizzare con pieno diritto
la sua libertà e i suoi doveri.
Qui sta la nostra radicale
diversità da ogni concezione socialista e di democrazia sociale
(che premette la società generale ai singoli centri di vita e conferisce ad
enti astratti Società e Stato – che non hanno una consistenza concreta - una
potestà assoluta) e altresì la diversità da tutte le teorie individualiste.
Il pensiero che non preveda la stretta e continua relazione tra individuo e
comunità famigliare e sociale non riesce a fondare alcuna premessa giuridica
assoluta che possa avere qualche valore, ma solo imposizioni dall’alto che
sacrificano la realtà di vita reale e la sottomettono a un potere tirannico. E’
invece la vita personale a esigere la presenza di una famiglia in cui vivere e
di una aggregazione sociale in cui la famiglia possa avere spazio e lavoro e
per comunicare.
L’art. 2 della costituzione
è proprio il fondamento della Costituzione e dell’ordinamento tutto. L’art. 1
senza l’art. 2 non si sostiene e del resto potrebbe essere anche sviante: vi si
dice che la Repubblica è “fondata sul lavoro”, dizione generica e
ambigua perché invece lo Stato è fatto di persone umane e non di api operaie in
un alveare! Esso voleva dire invece – e sarebbe stato assai meglio che lo avesse
scritto! – voleva e vuol dire che lo Stato è fondato sulla vita delle persone,
le quali hanno un loro spazio fisico e mentale, e perciò sulla possibilità data
ad ognuno di accedere a un lavoro onesto e retribuito e dove il lavoro sia
giustamente pausato dal riposo e da attività ricreative del corpo e dello
spirito. Basterebbe rileggerlo in questo senso tale articolo 1 e coordinarlo
all’art. 2 e divulgarlo, ed avremmo espresso il messaggio di una politica
demo-cristiana.
Da queste basi era nata
l’Opera dei Congressi, che dette vita all’Azione Cattolica, la cui
organizzazione era parrocchiale e interveniva nelle povertà reali. E dalle
stesse basi sociali nacquero poi le proposte nazionali a un coordinamento
politico ispirato al messaggio cattolico. E nacque, con il santo papa Pio X, la
Democrazia cristiana, traduzione concreta di quel che aveva affermato
Leone XIII sulla democrazia, in linea con le idee di Pio IX, di cui Leone XIII
è stato fedele continuatore.
Leone XIII aveva anche
detto, in altra enciclica, che Stato e Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine
e grado, indipendenti e sovrani (e queste stesse parole furono inserite poi,
per mezzo di Giorgio La Pira (su dettatura di mons. Montini, poi papa Paolo VI)
nella Costituzione italiana all’art. 7. In realtà Leone ricordava l’antico
monito di Gelasio I (494 d.C.) all’imperatore Anastasio che poneva la
distinzione tra le due supreme potestà universali, Papato e Impero e fu
elemento fondante il diritto internazionale. E la applicò all’Italia e a ogni
Stato moderno: contro l’onnipotenza dello Stato nazionale, che aveva preteso di
dar ordini alla Chiesa Ma anche contro la – pur moderata - sentenza del Cavour
che proclamava “libera Chiesa in libero Stato”, formula attinta al cattolico
belga Charles de Montalembert. No, disse il papa, tale formula non è
accettabile, perché concede troppo potere allo Stato: e può adottarsi negli USA
ove le chiese stesse (la cattolica e le protestanti) hanno notevole forza
sociale che la tradizione conserva indipendentemente in uno Stato il quale ha
nella sua costituzione un esplicito fondamento religioso. Invece là come in
Italia uno Stato “laico” (e irreligioso nel fondo) si confronta con la Chiesa,
la libertà di entrambe le istituzioni non garantisce la vita della più debole (quella
disarmata): donde il pericolo di indebite ingerenze dello Stato nella vita
quotidiana, mediante il potere coattivo che esso possiede.
Di fronte a uno Stato
“laico” la Chiesa ha un solo modo di difendersi, quello di fare patti chiari
fin dall’inizio. E’ uno stile che, ribadendo la importanza ma anche la
diversità tra queste due istituzioni, esige un Concordato ove si stabiliscano i
confini tra le due potestà. Ciò aveva ben intuito il grande papa veneziano Pio
VII Chiaramonti con il segretario di Stato card. Consalvi, appena dopo
l’esperienza napoleonica che lo aveva messo in prigione.
La
nascita della Democrazia cristiana
Da Pio X nacque la DC: e
don Romolo Murri il 3 settembre 1900 fonda a Roma la Democrazia cristiana
italiana alla presenza di qualche centinaio di giovani. Ma la sua esigenza
di riformare, assieme alla politica, anche la società e la Chiesa stessa, lo
mette in conflitto con l’Opera dei Congressi che vede in ciò un vulnus
all’Intransigentismo di allora. E ciò gli varrà l’accusa di modernismo.
Sospeso a divinis e la scomunica per essersi presentato alle elezioni
politiche in una lista di Radicali (1909). Lo riabiliterà Pio XII nel 1943: e
in quell’anno Degasperi intitolerà il nuovo partito di cattolici esattamente
con la denominazione del Murri, Democrazia cristiana: don Luigi Sturzo
scriverà “Fu Murri a spingermi definitivamente verso la Democrazia cristiana
e da allora vi sono rimasto sempre fedele”. E’ il Murri comunque il fondatore
dello spirito democristiano, cui si attenne Don Sturzo, meno teorico di
lui e più pratico e disinteressato al fenomeno modernista: come del resto
Degasperi che tenne sempre presente il Murri distinguendo in lui il pensiero
politico da quello teologico, essendo Degasperi un rigoroso “tomista”.
Ci pensò Giolitti a venir
incontro al desiderio democristiano di inserirsi nelle istituzioni: e nacque il
Patto Gentiloni (1912), a portare consensi al Giolitti che era stato contestato
per la dispendiosa e inutile guerra di Libia: i cattolici avrebbero votato quei
candidati del partito liberale che erano anche cattolici. E fu un trionfo
elettorale di Giolitti nel 1913 e della sua politica sociale ed economica.
Ma il mondo cattolico non
lo seguì più nel momento in cui invece avrebbe dovuto dare la sua più ampia
adesione, allo scoppio della Grande Guerra. Quel leader – conscio dei pericoli
– aveva sostenuto la neutralità: e i cattolici lo seguirono nel 1914, ma in
pochi mesi sciolsero le file, e si gettarono nell’intervento: e neppure accanto
all’impero austriaco (nell’eco della Triplice Alleanza) ma nel campo avverso,
guidato dalla Massoneria internazionale. Furono dunque corrivi a un
“tradimento” non giustificato neppure dalla indipendenza dei territori di
Trento e di Trieste, che l’Austria ci offriva Gratis. Vinse l’ottuso
nazionalismo: eppure alla notizia di quella tragedia era morto di crepacuore
Pio X e Benedetto XV era il papa della pace! (così almeno è stato detto!).
Dopo il tragico conflitto –
che il papa Benedetto XV definì “Inutile Strage” (assai tardi però! Solo nel
‘17! Dopo aver consentito a quella strage cui avrebbe dovuto opporsi
dall’inizio!!!) – i cattolici dovevano impegnarsi nella ricostruzione e nella
pace. Ed era ora che vi fosse una presenza politica cristiana. Fu il sacerdote
siciliano Luigi Sturzo (amico del Murri) a prendere l’iniziativa, e dopo averlo
sperimentato nelle realtà politiche di base comunali, lanciò il discorso famoso
“Ai Liberi e ai Forti” che puntava a dare coraggio a quella che si
presentava come una grande impresa, alla luce della Croce vincente sul mondo (a
imitazione della Crociata, e con il segno crociato, ma che sostituiva alle armi
la parola e l’azione sociale). Ed ebbe subito una gran quantità di consensi.
Ormai il non expedit
di Pio IX e di Leone XIII non valeva più: era stato Pio X ad allentarlo: ma
tale disciplina rimase: l’azione dei cattolici in politica non avrebbe
impegnato la Chiesa, e il nuovo Partitio ebbe nome di Popolare
significando che una politica cattolica era proprio quanto il Popolo esigeva; e
che i cattolici entravano in politica per vocazione sociale e non per comando
da parte ecclesiastica. E il Vaticano dimostrò la sua simpatia consentendo che
fosse un prete a presentarsi come parlamentare e segretario politico di un
partito: non mise divieti e ciò mostra l’apertura del papa della Pace.
Il Risveglio...
Quella formazione politica
cattolica tornò ad essere presente dopo la fine del fascismo ed ebbe un enorme
consenso di voti e governò il paese con moderazione e saggezza. Commise anche
errori, ma non tali da portare a una sua emarginazione. Eppure i suoi leaders
nel 1993 decisero di mutar nome e contenuti a quel partito (a imitazione dei
mutamenti introdotti in altre formazioni politiche) rinominandolo popolare e
subito decisero di non richiamarsi più alla dottrina della Chiesa e di
“suicidarsi” confluendo in altre formazioni politiche, di destra laicista o di
sinistra marxista, senza alcun riferimento alla matrice cristiana. E il mondo
si chiede perché mai ciò sia avvenuto, se lo chiedono anche altre forze
politiche, data la buona memoria storica che la DC aveva lasciato di sé.
Ora il tribunale ha espresso
la Sentenza che in realtà quella DC non è mai spirata e che è tuttora viva. Una
occasione nuova si presenta dunque ai cattolici che non intendano rinunciare a
una diretta presenza politica. Ora è dunque tempo di rilanciare questa forza
politica: anche perché nel paese trova espressione ogni impostazione culturale
tranne quella cattolica: vi sono partiti marxisti e liberali, perfino quelli
comunisti e che riprendono moduli autoritari… manca solo una posizione che si
ispira alla dottrina della Chiesa.
E da molti anni il
cittadino è costretto a una rigida polarizzazione, a un aut-aut tra una
cosiddetta Destra e una cosiddetta Sinistra. E v’è una nuova formazione che
(pur senza un chiaro orientamento: lo dice il nome stesso 5 Stelle che
non ha contenuti politici precisi e riceve consensi da quanti non si sentono
interpretati dagli attuali partiti): perché mai non offrire una scelta secondo
una proposta organica e già collaudata nel corso della storia?
Può dirsi forse che quella
proposta è stata bocciata dalla storia? No certo! La storia ha bocciato altri
partiti, come quello socialista, che si estinse per mancanza di consensi, e
quello comunista, che crollò per il crollo del regime sovietico al quale era
indissolubilmente legato: donde i vari tentativi dei comunisti di ripresentarsi
sotto altro nome: PDS, poi DS, infine PD… Ma la DC fu l’unico partito che non
venne bocciato dalla storia né dall’intervento della magistratura (come accadde
al PSI) né dagli elettori… Scomparve solo per la volontà suicida dei suoi
dirigenti di allora, nel luglio 1993: cedendo alla imitazione di altri (i
comunisti) che avevano mutato sigla. Ma ha lasciato nella memoria di moltissimi
un positivo ricordo, di correttezza democratica e di buongoverno…
3°
Giudizio storico
sul Movimento cattolico in politica
a) Sul Partito Popolare
E’ vero che – come disse lo
storico Chabod negli anni ’50 – il fatto nuovo della politica italiana nel XX
secolo è la nascita del Movimento cattolico: ma dobbiamo convenire che non
eccessivamente positiva fu la prima edizione di tale presenza. La quale,
non ostante l’ottima qualità dei suoi componenti, fu segnata da uno spirito
eversivo delle istituzioni vigenti gettandosi a capofitto contro l’equilibrato
governo Giolitti e colpendolo al cuore su una questione di esile rilievo (la
nominatività dei titoli bancari) aprendo la strada al fascismo ed entrando nel
primo governo Mussolini (di concentrazione nazionale).
Con questo ho detto tutto
quel che resta da dire su QUELLA esperienza (non prendo neppure in
considerazione la questione dell’Aventino che era scelta giusta ma senza la
fermezza che sarebbe stata necessaria e incamerando invece una denominazione di
antifascismo senza averne i contenuti necessari).
E potrei anche chiudere su
questa esperienza fallimentare del Partito Popolare... se non l'avessero
POI rieditata altri cattolici i quali, autonominandosi anch'essi Partito
Popolare con l'intenzione precisa di rifarsi a quella esperienza senza averne
colto il limite, hanno voluto anche ripetere quello stesso iter del passato
mettendo in crisi il governo Berlusconi (governo di moderati paragonabile forse
a quello di Giolitti di allora) per appoggiare senza riserve il governo delle
Sinistre. Determinanti, come allora: non già per sostituire a un governo laico
uno cattolico, ma per avallare – nel nuovo come nel vecchio caso - formule ben
distanti dalla tradizione cattolica. Ed esattamente così come Mussolini non
poteva affermarsi senza l'appoggio dei cattolici, analogamente i DS del 1995
non potevano affermarsi senza l'appoggio dei cattolici, che glie la dettero
attraverso la formazione dell'Ulivo, entro cui il nuovo Partito Popolare si
dissolse, mettendo in tal modo la parola "fine" all'impegno cattolico
in politica.
Questo è doveroso ricordare
come fatto storico senza neppur dare giudizi in merito alla bontà dei
singoli governi; però è un fatto che i cattolici nell'uno e nell'altro caso non
hanno mirato né a governare né a correggere il governo altrui, bensì solo a far
da sgabello ad altri, cioè a idee estranee a quelle di un movimento cattolico.
b) la
Democrazia Cristiana: suo valore
Di ben più ampio respiro e
di più elevato livello sociale e culturale e politico è stata l'operazione
della Democrazia Cristiana, che merita ben altro giudizio storico. Che deve
essere annunciato come positivo per l’intero Paese dal punto di vista della
stabilità democratica, per la sincera e concreta difesa delle libertà, per il
rispetto delle minoranze e delle opposizioni; per aver tenuto lontano gli
insidiosi miraggi di regimi antiumani e di affermazioni di forza cui pur altre
democrazie illustri si son fatte trascinare; e per aver creato le premesse
della crescita economica del Paese e l'aver contribuito allo sviluppo civile di
tutti gli italiani.
Il nome Democrazia
cristiana non indicava un raggruppamento di “cristiani” ma un ideale cui
tendere: verso una democrazia attuata secondo i principi e i metodi della
tradizione cristiana, nella convinzione che solo in essi si realizzino
condizioni di vita umane. Era un ritorno alle origini: a due valori
forti, Cristianesimo e Democrazia (per i quali valgono ancor oggi
le definizioni di Jacques Maritain nel saggio che porta questo titolo).
Il termine Democrazia
è equivoco se non lo si qualifica: non ogni democrazia siamo disposti ad
avallare, non quella giacobina, non le democrazie popolari dell'Est, non la
democrazia borghese individualista, ma la democrazia pluralista che
trova la sua definizione proprio nel pensiero cristiano. D'altra parte
l'appellativo cristiana a qualificare una posizione politica sarebbe
ambiguo se non fosse riferito unicamente al termine democrazia: infatti
il cristianesimo ha avuto in politica varie espressioni (neoguelfismo,
cristianesimo liberale, intransigentismo, ecc.) non tutte sottoscrivibili in
pieno: e proprio per non creare equivoci i cattolici han voluto legare il
richiamo al cristianesimo con quello alla democrazia. Cristiani sì ma
democratici: ad accogliere il mondo moderno nelle sue migliori espressioni.
c) … e
suoi limiti
Il giudizio positivo sui
governi a guida democristiana dovrebbe essere considerato “categorico”.
Dobbiamo aggiungere però –
a onor del vero - che molti furono gli errori compiuti dai democristiani: ne
vedremo alcuni. Si riassumono nel non aver considerato talune conseguenze
storiche poste dall'avvento della società moderna, e che sono sintetizzabili
nella avvenuta scristianizzazione del nostro paese, visibile anche nella
perdita di immagine subìta dalle nostre belle campagne e dalle nostre
città, che vennero esteticamente degradate, segno evidente di elementi negativi
di fondo, che non sono stati evidenziati con la cura necessaria. Ne parleremo.
Ma deve dirsi già, a premessa, che questo scempio poteva essere evitato del
tutto o almeno largamente corretto.
Il giudizio critico
primario riguarda una certa difformità tra la gestione del potere da parte dei
cattolici e i nobili principi che erano stati additati sia nelle "Idee
ricostruttive " di Degasperi, sia nel coevo "Codice di
Camaldoli" dell’estate 1943 (eppur non esattamente coincidenti).
La colpa di tale difformità
non va però assegnata solo ai politici cattolici di allora ma all'intero mondo
cattolico e, in primis, ai suoi prèsuli
ecclesiastici. L'azione politica infatti è condizionata sempre da una tendenza
della cultura di base presente nell’ambito sociale, dalle premesse sociali di
questa: e occorre riconoscere che il mondo cattolico di base, quello delle
parrocchie e delle diocesi, non ha approfondito, non ha riflettuto. L'errore
evidente e massiccio da ciò conseguito è di aver trascurato ogni tipo di
approfondimento culturale, e dunque ogni tipo di intervento decisivo, ogni
riflessione attenta agli eventi, ogni idea di rispettare le premesse di fondo,
quasi vi fosse una idiosincrasia verso le premesse culturali. Sì che il
poderoso esercito organizzato nel Partito è stato privato dall’apporto di una
classe intellettuale o almeno di una scheggia impegnata di essa. Tanto da
rinunciare persino all’unico punto di riferimento davvero inossidabile, quello
del Papa come capo della Chiesa e quale titolare della Santa Sede, elemento
soprannazionale la cui importanza e la sua stessa nozione sfugge persino alla
gran parte dei cattolici.
a) il fastidio per la cultura
Questo fastidio per la
cultura ha portato in definitiva alla crisi dello stesso mondo cattolico
impegnato in politica. L'esatto opposto di quel che “contemporaneamente” ha
segnato il partito comunista da parte di Antonio Gramsci, la cui "via
italiana al socialismo" seguita da Palmiro Togliatti (parallela e
contrapposta alle Idee ricostruttive degasperiane) ha portato al balzo e
al trionfo delle idee marxiste e al consolidamento progressivo del Partito
comunista, non tanto e non solo elettoralmente parlando, quanto al modo di
pensare e dunque al riferimento ai valori etici e giuridici e perciò alla
mentalità comune del nostro paese. Basti pensare che un solo Partito ha
prodotto una stampa uniforme e costruttiva nel 90% dell’editoria italiana (sì
che la Mostra del libro italiano attuata in Francia da Berlusconi registrava il
98% di pubblicazioni prodotte dalla sinistra marxista): e congiuntamente il
Partito Democrazia cristiana non ha saputo dar voce neppure ad una editrice
(sì, una, ma con solo cinque titoli! Le “Cinque Lune” che non esprimono alcuna
cultura di livello) e neppure a un giornale di partito che non fosse un
bollettino, e neppure una rivista che avesse il suono di un accento cattolico.
Questi due diversi
atteggiamenti sono specularmente inversi: la Democrazia cristiana ha perduto
tutto perché non ha curato la cultura, il mondo comunista ha vinto tutto
proprio perché l'ha curata. La cultura è stata intesa dai cattolici come un
fatto da intellettuali, - che la DC non ha saputo mai esprimere dal suo
seno - nel mondo marxista italiano invece la cultura è stata la premessa di
ogni posizione politica.
b) l'ottusa contrapposizione
Il successo del movimento
marxista nella conquista delle masse nel dopoguerra ha dato ai cattolici un
grande alibi, questo: la necessità di fare Argine contro i Comunisti
(attenzione, non contro le idee comuniste, ma contro le masse organizzate). Un
alibi per nascondere l'indolenza del non far azione di cultura, vestendo armi e
scudo da combattenti per la Croce. Una contrapposizione necessaria certamente,
ma svolta in modo acritico e sostanzialmente ottuso, quindi fatalmente
perdente. Incapace di parlare di valori, incapace di mettere a nudo gli altrui
disvalori, ambigua nel coordinarsi alla difesa di disvalori (la difesa del
padronato agricolo e della industrializzazione forzata e delle armi atlantiche
e di tutto ciò che è USA).
Nel 1948 questa
contrapposizione di pura aggregazione di forze era giustificata dal fatto che
il partito comunista si poggiava su uno Stato diverso e avverso, l'Unione
Sovietica (nulla si faceva senza i precisi ordini di Stalin, questo il Bollettino
di guerra di Togliatti), in una scelta di campo antinazionale che meglio poteva qualificarsi come Secessione e
Intelligenza con lo straniero (e tale legame con il blocco sovietico rimase
anche dopo di allora, fino alla estinzione dell'URSS).
Ma la giustificazione
dell'argine al Comunismo come forza politica (non venne neppur in mente la sua
forza morale e culturale) è stata spesso una scusa per la rinuncia a una più
decisa politica sociale. Infatti per far argine al Comunismo si ricorse al
fronte capitalista: questa la innaturale e colpevole debolezza dei
Democristiani. La DC ha certo dovuto garantire stabilità in un dato quadro
internazionale imposto a Yalta nel '45 dalle potenze vittoriose nella Guerra
mondiale, cioè la spartizione tra Est e Ovest, e ha necessariamente optato per
l'Occidente. Ma i cristiani non dovevano limitarsi a questo, dovevano offrire
ben altro respiro; anche perché - come diceva il filosofo Augusto Del Noce -
quando tu imposti la politica in funzione di "anti- (comunismo o fascismo)” sei sempre in una posizione di
"battuta seconda", cioè dove il protagonista è l'altro, non sei tu.
Che cosa si sarebbe dovuto
fare, allora? La cosa più semplice: informare sui crimini del comunismo reale,
valutandoli alla luce dei valori di fondo avvertiti dai più semplici tra i
comuni mortali; additare la inconciliabilità tra quelle posizioni e non solo
con la dottrina cattolica ma con quelli della cultura civile. E, salvo la
brevissima parentesi elettorale del 1948, né prima né dopo di essa si fece
alcun cenno. Si parlò solo di crimini di Hitler, che peraltro era già sepolto,
e non di crimini di Stalin, che era vivo e vegeto e presente nei suoi
dipendenti italiani. Ci si alleò anzi con costoro, per salvare – si disse - non
so quale Paese da non so quale Pericolo! Occorreva fare cultura spicciola,
insomma, nei seminari e nelle scuole, nella carta stampata e negli altri mezzi
di comunicazione di massa. Avvisare e denunciare. Dire almeno una parola sulle
foibe del Carso (che continuarono per anni dopo la guerra e la pace) e non
tacerne, come si è fatto invece, per mezzo secolo… e quale mai operaio – se da
noi informato - avrebbe mai più osato innalzare, allora, la bandiera rossa
inneggiando alla Libertà comunista? O avrebbe potuto osar associare negli inni
la Libertà con il Comunismo? Occorreva svelare che Comunismo significa un bel
No allo Sciopero e al Voto e un No al Sindacato: e non avremmo avuto l'insopportabile
assurdità di sindacati che si richiamano al comunismo!
Venne invece detto soltanto
che il comunismo attentava alla proprietà! E allora, quale mai maggior invito
ai diseredati di iscriversi proprio a quel Partito? E' evidente che i maggiori
propagandisti del partito comunista sono stati i democristiani che dicevano
queste cose. E si chiamarono all'appello i Proprietari, e si fece lega con i
Massoni, che perfino Mussolini aveva sconfitto e disperso senza sforzo… Se
dunque c'è stato un partito suicida fin dal suo nascere, questo fu la DC, che
per dir male del partito comunista lo ha esaltato come movimento
antiproprietario e antimassonico.
Invece il Codice di
Camaldoli aveva pensato in modo ben diverso. Si osservi che in esso non c'è
nessun accenno al marxismo né ad altre ideologie, in quanto si tratta di un
discorso tutto propositivo, mirante al protagonismo del mondo cattolico.
c) anni '50: la scelta industriale scristianizzante
Invece l'aver indicato
quale problema centrale il "pericolo" alle proprietà da parte del
comunismo avanzante è stato come rinunciare a una politica propositiva. Del
resto, l'argine al comunismo che fu decretato non significava una vera lotta a
quel sistema, in quanto contemporaneamente i democristiani della prima ora si
improvvisarono come improvvida Sponda al comunismo stesso, agevolandolo e
legittimandolo, nel fascio antifascista di comodo già nei governi postbellici e
anche nelle amministrazioni comunali e provinciali, in un generoso quanto
insensato regalo a quella cultura di morte. Lo si legittimò per non alimentare
- si disse - la tensione all'interno del paese!... e stendendo il velo del
silenzio sugli orrori dal comunismo commessi (e che si stavano commettendo) né
si sa perché.
La lotta al comunismo venne
concentrata solo nel suo aspetto teorico di aggressione alla proprietà
privata... Nella rinuncia all'ampio programma di riforme sociali, si scelse di
non utilizzare l'enorme fiducia che le masse avevano dato al partito cattolico;
e si imboccò la via del “centrismo”, in una soluzione liberista nell'economia,
precisamente antitetica a quella cristiana (attenzione! Non diversa o
complementare ma antitetica: nella sua premessa all'edizione del "Codice
di Camaldoli", Taviani spiegò come non sia possibile coniugare
liberismo e cristianesimo).
E si lasciò che le forze
del potere economico avviassero una industrializzazione massiccia e rapida e
non regolata nei tempi e nei modi. Questo è il peccato grave della DC: si
dimenticò delle sue scelte prioritarie di sostegno della civiltà contadina, si
dimenticò delle campagne, non adottò provvidenze per lo sviluppo del settore
agricolo, non lo confortò con la cultura, si vergognò anzi del mondo contadino:
forse per non imitare la retorica fascista (che però era sacrosanta) delle
campagne e della battaglia del grano (con la quale però Mussolini si conquistò
il paese), ribadì anzi l'istintiva sudditanza dei contadini verso il mondo
operaio e cittadino: quel senso di vergogna di essere i sacerdoti della terra!
Ne conseguì un avvilimento
dell'agricoltura e di tutta la società legata alla terra, con l'esodo massiccio
dalle campagne: e la conseguente scristianizzazione del Paese e di tutte le sue
strutture e di tutti i suoi contenuti e di tutte le sue scelte. Destrutturare
il sistema agricolo, infatti, significa colpire al cuore la civiltà contadina,
cioè l'unica vera e coerente civiltà cristiana, frutto di secoli di missione
della Chiesa, che aveva avallato e confortato l'intrinseca religiosità che la
forza contadina possedeva già nell'ancestrale paganesimo.
Il che del resto era anche
sconsiderato dal punto di vista di pura politica economica, perché ignorava che
la campagna è il primo fattore di produzione, detto perciò in linguaggio
economicistico Settore Primario (accanto alla produzione delle miniere). Di
fronte a cui doveva esser messo il passo dell’industria, la quale dal punto di
vista economico deve occupare solo un posto gregario alla prima, in quanto cura
la trasformazione dei prodotti, e perciò è chiamato Settore Secondario.
E occorre che qualcuno ci
spieghi che cosa significa Civiltà industriale, dal momento che è impossibile
considerarla elemento basilare di civiltà in quanto ha bisogno di presentarsi
come gregario alle campagne, in quanto è servizio di trasformazione di
prodotti.
Eppure i nostri bravi
cattolici (nessuno dei quali sapeva qualcosa di economia, dovendo rifarsi solo
al mondo dei liberali, il quale - lo vedremo - era intimamente congiunto, su
questo, con i marxisti) hanno preteso l’abiura del popolo contadino al suo
settore primario e la sua conversione alla fabbrica operaia, alle macchine (e
ciò dietro il modello laicista e insieme comunista, quello del martello
accomunato alla falce). E vi furono pur intellettuali cattolici che osarono
editare una rivista dal titolo “Civiltà delle Macchine”! Sì, erano “cattolici”
nel senso che eran gente pia e devota (pur se da loro usciranno taluni dei più
fanatici extraparlamentari corrivi al crimine, insomma assassini)…
E tutto ciò senza aver
preparato una sostituzione, senza aver evangelizzato la Città, che venne
consegnata alla fabbrica e ai suoi meccanismi atei, pensati e voluti dagli atei
e sostenti da una filosofia atea non mai contrastata, sulla quale aveva potere
onnipotente il verbo marxista.
E se pur la DC ha il merito
di aver assicurato la stabilità dell'assetto democratico nella difesa delle
libertà e nel tener lontani insidiosi miraggi di affermazioni di forza,
tuttavia la funzione assunta da essa quale Argine al comunismo le ha fatto
smarrire il programma originario. Anzi la DC varò essa stessa congiuntamente
proprio gli obiettivi principali delle due massime ideologie avverse, cioè
tanto del Capitalismo quanto delle Sinistre: l'industrializzazione sfrenata da
una parte, dall’altra (ma congiunta con essa) la proletarizzazione. Ne conseguì
un drastico svilimento della società contadina: e con l'adesione di quelle
masse allo stereotipo della società consumistica metropolitana.
Anche le
"partecipazioni statali" nel mercato produttivo - additate dal Codice
di Camaldoli, che prese atto di una realtà nuova del secolo XX, e con
intenti sociali - sono state realizzate senza un'etica economica – dobbiamo
ammettere che l’economia non interessò i leaders democristiani, che infatti la
appaltarono ai partners laici: donde il conseguente processo di corruzione.
d) anni '60 et ss: la disastrosa opzione
nazionalizzante senza senso dello Stato
Tuttavia, la DC fu
riformista nella prima ora, tanto da provocare la reazione di destra (visibile
nelle elezioni del 1951); ma quando poi, dopo la parentesi centrista del boom
economico, si decise la svolta a sinistra – avvertita come “doverosa” per
gestire socialmente le fonti di energia, con le nazionalizzazioni - da allora
ogni riforma (come quella delle partecipazioni statali) è stata realizzata
senza un adeguato controllo e senza un'etica economica che impedisse
spartizioni di potere e processi di corruzione.
e) anni ’90 et
sqq: la tragica privatizzazione
E tuttavia peggiore di quei
processi di corruzione è l'attuale rinuncia (dagli anni ’80) alle
partecipazioni statali, il riflusso totale nel privato. In questo campo tutte
le tematiche di allora sono oggi cancellate dalla memoria del mondo cattolico,
sì che le persone poste a guidare le industrie dello Stato sono quelle che
hanno venduto le industrie di Stato: si veda il caso Romano Prodi, che inaugurò
tale tendenza: Fiduciario dell'Amministrazione delle aziende statali, le ha al
contrario smantellate, con svendita (sottocosto!) ai privati.
i tre problemi dimenticati dai cattolici
E non dobbiamo dimenticare
che la DC non ha risposto alle maggiori sfide del mondo moderno con i valori
cristiani cui pur intendeva rifarsi: le sfide cioè della pace, dell'ambiente,
della partecipazione politica:
a) al problema della pace
occorreva rispondere con l'abolizione del ricorso alla forza e con la scelta
rigorosa della nonviolenza (il
potente richiamo biblico "non ucciderai!");
b) al degrado ambientale
doveva contrapporre una chiara scelta ecologica
(il potente richiamo biblico "la Terra è di Dio!");
c) al dirigismo politico e
alla sparizione delle autonomie doveva opporre una scelta di base civica e del
mondo contadino, assicurando il Pluralismo di base cioè la reale Democrazia.
a) il problema della Pace
Il non avere detto una sola
parola sul problema della pace è stata una inqualificabile vergogna, poiché si
tratta proprio della "carta di riconoscimento" del cristiano
(amare chi ci ama è da tutti, solo se sapremo amare i nemici, da questo saremo
riconosciuti: parola di Gesù!). La nonviolenza è il cuore del
Cristianesimo: ma in Italia gli obiettori di coscienza venivano condannati e
privati dei dritti civili; e, se cattolici, ricevevano in aggiunta la solenne
scomunica da parte della Chiesa. Avete letto bene: "scomunica"
da parte della Chiesa ed "espulsione dai pubblici uffici" da parte
dello Stato. E' successo questo proprio al sottoscritto, obiettore del 1965-66
(cioè dopo il famoso Concilio Ecumenico!): non solo condannato al carcere, ma
privato della S. Messa e della Comunione per decreto dell'Ordinariato Militare
(scomunica "latae sententiae" prevista specificamente e da
sempre per gli obiettori); ed espulso dal Posto conseguito per Concorso nella
Università di Roma quale Assistente di Ruolo. E dire che quel caso fu assai
clamoroso... ma Nessuno fece caso a quelle due conseguenze, così gravide
di significati da disonorare la società civile ed ecclesiale!
E quanto alla Nonviolenza,
si tratta di un messaggio che il mondo cattolico non ha ancora assimilato: e
ancor oggi si viene apertamente a giustificare nel mondo cattolico l'uso della
forza e la pratica della guerra; né solo della guerra di difesa (come un tempo
lontano) ma altresì la stessa guerra di intervento giudicato
"umanitario": si pensi all'invasione del Kossovo, decisa all'insaputa
del Paese dal Governo di Sinistra! I miei interventi su "Avvenire"
(il giornale dei Vescovi) vennero prima irrisi dalla presentazione della
Direzione, poi cestinati; e venne perfino giustificata la stessa “Guerra
preventiva” quale misura contro il Terrorismo Internazionale (due volte in
Iraq, e in Afghanistan, con violenze vili inaudite)... Tanto che la
nonviolenza, scartata dal mondo cattolico ufficiale (quello delle parrocchie e
della stampa cattolica), ha dovuto emigrare e approdare ad altri lidi: prima
presso i Radicali, che la storpiarono, poi perfino tra i Comunisti, addirittura
tra quelli di Rifondazione, di Bertinotti, i quali perciò la ridicolizzarono
avendo essi congiuntamente lo sguardo fermo a Fidel Castro e al Ché Guevara
dopo avere sostenuto i regimi di morte marxisti in tutto il mondo (anche
attraverso l'ampio sostegno dei Sindacatimondiali che premiavano con i Premi della Pace il Mengistu etiopico
sterminatore di milioni di connazionali etiopi). Così quello che era un punto
di identificazione del cristiano - la Nonviolenza - ha finito per divenire
bandiera di partiti e movimenti che hanno a loro fondamento l'uso sistematico
della violenza.
b) il problema dell'Ambiente
Il non aver detto il mondo
cattolico una sola parola sulla difesa dell'ambiente ha fatto sì che
l'Ambientalismo fosse una bandiera diversa e sostanzialmente acattolica (laica anticristiana)
con i Verdi (né servì l’ottimo cattolico Alex Langer per riscattare una tale
anima), che nell'agire politico sono poi subito franati, immiserendo essi
stessi il grande tema ecologico e mettendosi a ruota dei comunisti (quanto di
vero nella battuta andreottiana delle angurie, verdi all'esterno ma rosse
all'interno!). E nulla si è fatto (nulla i Verdi hanno fatto) né contro la
violenza nelle campagne (non si è urlato contro le stalle moderne ove le mucche
sono tenute imprigionate, né contro i moderni lager del pollame di allevamento;
né contro la costrizione assurda degli alberi da frutta schiacciati a lame sottili
per consentire la raccolta rapida con le macchine!), né contro il gravissimo
problema dell'elettrosmog, lasciando che le antenne per i telefoni cellulari
svettassero sulle case al centro delle città, portando continuo nocumento alla
salute e perfino frequentemente la morte.
c) il problema delle Autonomie
Il non avere i cattolici
detto una parola sulle autonomie civiche e sul mondo delle comunità agrarie è
stato ancor più strano. Infatti, mentre per gli altri due princìpi, pur
patrimonio genuinamente cristiano, non si poteva invocare alcun precedente
programma politico (davvero i cattolici non
sono mai stati pacifisti nella loro storia, davvero non hanno mai saputo neppur cos'è l'ambientalismo, e ciò pur nel
loro antico amore per le campagne), invece l’argomento delle autonomie (su cui
forse non potranno citarsi riferimenti evangelici) è stato proprio un cavallo
di battaglia del Movimento cattolico, anzi della plurisecolare tradizione
cattolica. Fin dalla società medievale, il cui cosmo è stato costruito proprio
dalla Chiesa sulle autonomie di base, fino alla difesa delle autonomie contro
l'avanzata protestante che le distruggeva (il famoso contrasto tra cantoni
contadini cattolici e zone industrial/commerciali dei Riformati,
intelligentemente individuato da Max Weber). E vi fu quella "avanzata
congiunta" del Re e della Borghesia che chiamano Assolutismo: e tutto ciò
preparava la destrutturazione delle campagne e la imposizione delle enclosures
(recinzione dei campi e l'uso esclusivo della proprietà da parte dei borghesi e
l'estromissione dei contadini da quelle terre in cui essi erano stati per
lunghi secoli i conduttori diretti, o "direttari"): donde la tragedia
della industrializzazione e della nascita del proletariato.
Ed è stata, quella delle
autonomie, una lotta che definì l'identità politica e culturale del mondo
cattolico contro i moderni Leviathani: si pensi al coraggio dei Gesuiti del
'700 nelle “Riduzioni” del Paraguay, coraggio evangelico pagato addirittura con
la censura papale/massonica/giansenista e la abolizione della stessa Compagnia
di Gesù: il più vergognoso disarmo in cui il papato – del francescano
marchigiano Clemente XIV - ridusse la Chiesa nei confronti del mondo borghese,
esponendola agli imminenti assalti di questo nella stagione dei Sovrani detti
"illuminati" e della Rivoluzione francese). E si pensi alla
resistenza cattolica contro i Giacobini (i cattolici della Vandea contro il
Giacobinismo di Parigi); fino alla smagliante prova di resistenza della Chiesa
dell'Ottocento (contro quel tipo di Risorgimento che fu in realtà una
piemontesizzazione della penisola…).
E ancora: l'età del Non
éxpedit del beato Pio IX (il Papa Martire) e poi quella delle Leghe Bianche
e della difesa delle comunità naturali e degli usi civici: dalle geniali idee
del Toniolo (irrise allora, e ancor oggi, da tanti cattoliberali). E don Luigi
Sturzo, che puntò sulle autonomie, ribadite dal Codice di Camaldoli, con
uno sforzo che giunse a dar impronta alla Costituzione proprio in quegli
articoli ove più forte si fece sentire l'influsso dei cattolici.
Ma la paura del comunismo
ha fatto dimenticare questa gloriosa storia del Movimento cattolico e la
tematica delle autonomie civiche e rurali come punto di riferimento e come
obiettivo politico: tutto dimenticato da quel professionisti cattolici della
politica affascinati dal pensiero laico liberale e ... innamorati del
Centralismo Statale nel secondo Dopoguerra.
Così questa bandiera delle
autonomie è passata in mani altrui:
a) in parte in quella dei
Socialcomunisti, i quali, dopo aver fieramente avversato le autonomie regionali
(anni 1948-51), poi, dopo il proprio successo alle elezioni comunali del 1951
(dovuto anche alle disattente parrocchie vogliose di ostentare carità e che non
tennero conto del bando emesso nel '49 dal papa con la scomunica ai comunisti e
ai loro fiancheggiatori) puntarono sulle autonomie regionali come via al
controllo - totale e veramente squadrista, ma in modo totalizzante - del potere
locale;
b) in parte, a scoppio
ritardato (anni '80-'90), nelle mani della Lega (Lombarda e Bergumista) e della
Liga (Veneta): si tratta di versioni diverse, si sa, dalla tematica originaria,
ma che non sarebbero neppur nate se fossero stati i cattolici a interpretare
l'idea delle autonomie e a darne il significato forte originario.
... Strano a dirsi, il
Meridione non espresse quelle tematiche, che pur potevano dar soluzione a molti
suoi mali. E non lo fece perché - dopo essere stato avvilito dal Risorgimento e
nell'Unità d'Italia – esso si pose come Blocco di fronte allo Stato con
atteggiamento di Creditore, a pretendere un intervento speciale continuo,
avendo il Meridione stesso assunto mentalità unitaria statalista (anziché di
regionalismo nel quale aveva fino allora contato); consegnandosi quindi, per le
soluzioni di base locali, alla rinata Mafia.
E si pensi al disinteresse
dei politici cattolici per le autonomie linguistiche: si limitarono a
ratificarle solo in Val d'Aosta e in Alto Adige: ricevendone solo in
quest’ultima gratitudine: la Suedtiroeler Volkspartei fu sempre alleata
fedele della DC, al contrario della Union Valdotaine, inossidabile
cellula comunista (ma invero qui non vi fu difesa di autonomie, poiché quel valdostano
è l’unica lingua esistente nella piccola regione).
urgenza
di riprendere questi temi
Quelle tre grandi tematiche
dimenticate dai cattolici occorre invece riprendere in un rilancio ampio, quale
bandiera del cattolicesimo politico, sicuri anche di incontrare le attese dei
più, perché si tratta di tematiche oggi più convocanti di quanto lo furono nel
passato, se abbiamo la forza di depurarle da improprie deviazioni e farne
capire invece il senso rivoluzionario rispetto all'attuale modulo di vita.
4°
"scelta religiosa" e abominio della
desolazione
Dunque va detto e ribadito
questo giudizio storico obiettivo: il mondo politico cattolico - vittorioso
alle urne e in una difesa delle istituzioni, che ha sempre saputo onorare con
imparzialità - nel suo complesso però ha ceduto: e su un punto
importante, proprio nella difesa dei valori morali, e lo fece proprio nella sua
apertura sociale al mondo laico, negli anni ’60 e ‘70… Donde la libera
pornografia, che è attentato palese alla costituzione - ma non ho visto
molti stracciarsi le vesti: forse per paura di esser considerati "retrogradi"?
- e divorzio, e aborto, e liberalizzazione di droghe, e un attacco al valore
della famiglia e in generale alla cattolicità in ogni sua dimensione... in una
con l’attacco ai valori della Tradizione comunque, anche della tradizione
accettata dal blocco marxista.
E il mondo cattolico (quasi
per invasamento) optò per una "scelta religiosa"! E’ la
famosa scelta dell'Azione Cattolica di Carlo Carretto e soprattutto di Vittorio
Bachelet, e delle ACLI (il mondo sindacale cattolico) di Gabaglio... E così il mondo
cattolico organizzato di base non si fece più sentire in sede politica… E
proprio quel che Mussolini volle nel 1930 (che l'Azione Cattolica non si
occupasse di politica), cui fieramente rispose il papa Pio XI con la secca
enciclica "Non abbiamo bisogno", si è così d'un tratto
realizzato trent'anni dopo, senza che nessun potere laico lo avesse richiesto:
e in regime di totale rispetto del diritto di parola e di azione… Un suicidio
politico, insomma! La Scelta religiosa è certamente il fatto più grave in
assoluto: ha causato la vera morte del mondo cattolico tout-court.
Così si lasciò che la DC
agisse avulsa dal mondo cattolico. E questo (sulla scia della tesi della unità
politica dei cattolici) continuò a funzionare solo come serbatoio di voti
nei momenti elettorali, ma anche in quei momenti disinteressandosi del partito,
senza cioè più indicare alla DC (unico partito di riferimento) le persone da
candidare: il che invece la DC chiedeva alle diocesi. Era doveroso che il mondo
cattolico provvedesse il suo Partito di persone generose e valide che
garantissero la difesa dei princìpi cristiani. Non lo fece: lasciò così la
politica ai politici; creò compartimenti stagni tra parrocchia e partito,
credendo in ciò di far azione moralmente encomiabile!
Con il risultato di una
grave caduta di tensione morale sia nel Partito perché non più impegnato ad
attuare principi cristiani esplicitati, sia nel mondo cattolico perché non più
stimolato, questo, a responsabilizzarsi di fronte alle scelte politiche.
Che cosa facesse poi questo
mondo cattolico disinteressato alla politica, che cosa facesse nella sua
sbandierata "scelta religiosa", non si sa, dal momento che proprio
allora le parrocchie si spogliavano del loro ruolo di espressione sociale: e
distruggevano le loro attrezzature sportive e chiudevano oratori e teatrini e
sale cinematografiche e vendevano terreni e le chiese stesse. Così le diocesi
si spogliavano oltre che di arredi sacri (rifornendo i mercati antiquari) e
vasti terreni e cappelle e chiese (trasformandole in magazzini e negozi -
proprio come nelle requisizioni giacobine e napoleoniche, anzi in modo più
vasto - anche di attività secolari, enti assistenziali, campi da gioco, cinema,
teatri, operando proprio l'avvento di quella Desolazione prevista dal
profeta Daniele, "l'abominio della desolazione" attuato nella
stessa Casa del Signore. E la gioventù allora, non più convocata negli spazi
parrocchiali, si avviava alle Discoteche, ad assorbire fumo e rumore e sesso e
droga e morte.
il suicidio della DC
Da un certo punto, negli
anni '70, dopo la questione del Referendum per il divorzio, si pensò alla
Riforma della DC: ad andare a recuperare quello che era stato perduto. E si
pensò ad una Ricostruzione, ad una Rifondazione della DC... Ma non si trovarono
persone adatte né programmi perché tale ripensamento era ben lungi dall’essere
approfondito: e poi una vera ricostruzione non vi fu, eppure permase il
discorso di una Rifondazione.
E dopo anni di passività
nel Pentapartito, ecco alfine la grande idea di "rifondazione" in che
cosa consistè: si decise di togliere di mezzo quel simbolo e quella
denominazione, rinunciare allo scudo crociato (e anzi alla stessa formula di un
partito cattolico).
Ciò per imitazione dal PCI,
che era diventato PDS (Partito Democratico di Sinistra). Eppure la differenza
era grande: il partito comunista, essendosi appoggiato unicamente all'URSS ed
essendo quella esperienza storica risultata fallimentare, doveva, per
sopravvivere dinanzi all’elettorato senza smascherarsi né riconvertirsi, doveva
dunque travestirsi! doveva registrare il venir meno di una grande illusione,
che durava dall'ottobre del '17. Svelata la grande bugia, il partito non poteva
presentarsi dinanzi ai suoi elettori senza esserne sbugiardato. Di qui il
travaglio che lo ha attraversato portandolo al mutamento del Nome. Ma la DC non
aveva quel tipo di colpe da rimproverarsi: i suoi errori erano di inadeguatezza
personale di singoli politici o gruppi ai principi cristiani, ma quegli ideali
non sono stati trovati carenti o contraddittori o bugiardi. Né l'elettorato era
stanco della DC, bensì di talune persone che - spesso per comportamento non del
tutto conforme al Vangelo - l'hanno interpretata e sono apparse inadeguate a
quel simbolo.
Ma i segretari politici di
allora (il rigoroso riformista Martinazzoli, con il suo partner o clown
Buttiglione) e talune Giovanne d'Arco improvvisate (la Bindi e la Martini e la
Jervolino ecc.) condotte da un Gesuita famoso e saccente (padre Bartolomeo
Sorge) sentenziarono che la DC dovesse fare harachiri. Ed ecco, nel '93
la DC sparire, per tentare - trasformandosi - di acquistare nuove posizioni di
potere; ma questa stupidità di fondo, ignorante di ciò che era l’animo e
l’attesa delle masse deluse, da allora è sparita per sempre, e con essa il mondo
cattolico che fa politica.
sul fiato corto del nuovo Partito Popolare
Per giudicare del riedito
Partito Popolare occorre esaminare quanto esso fece nella prima azione da
questo compiuta. Siamo nel 1994. Era giunto il momento fecondo in cui i
cattolici, parzialmente sconfitti alle urne, potevano (per la prima volta in
cinquant'anni) rimaner fuori dal governo, a ripensare i valori politici di
base, attenti a intervenire su questioni fondamentali. Invece il Partito
Popolare - che aveva tutti i voti di quel che restava della DC, cioè di quanti
credono all'impegno politico unitario dei cattolici - ha voluto rientrare nel
gioco politico per poter contare di più, mutando alleati senza preavvertirne
gli elettori. E in un paese ove una situazione economica disastrata stava per
venire sanata, ha aperto senza scrupoli una crisi al buio, senza uno stato di
necessità, freddamente, con premeditazione. Dicembre 1994!
Il PPI aveva promesso, per
bocca di Martinazzoli, di fronte al governo Berlusconi del 1994, una
"opposizione diversa": attendere e vigilare, appoggiare le misure
socialmente condivisibili, opporsi alle altre. Invece ha impedito che si
governasse; né ha frenato i decreti demagogici sulla Scuola o la corsa alle
privatizzazioni, ma si è unito al coro contro provvedimenti di rigore miranti a
eliminare gli sprechi. Anziché preoccuparsi della ripresa della occupazione, ha
lottato contro gli spot televisivi, invocato leggi antitrust. Se
almeno avesse denunciato le indecenze che la TV di Stato propinava; se avesse
difeso il buoncostume e la cultura! Invece ha speculato sul dissidio interno
alla maggioranza, agendo in concerto con forze (Lega e PDS) fino a ieri
dichiaratesi estranee l’una all’altra. Così questo partito, nato dalla DC senza
quel dibattito interno che pur caratterizzò il PCI (nella analoga decisione, di
tramutarsi in PDS); e che, rinnegando cinquant'anni di esperienza di una
cristiana democrazia, si è denominato Partito Popolare, ha già ripetuto
l'errore di tre quarti di secolo prima, quando il PPI di allora affossò il
governo Giolitti e tutta l'esperienza liberale per poi appoggiare il governo
Mussolini: rifiutò cioè un governo non ottimale (Berlusconi) per accettarne uno
pessimo, mostrando impazienza nell'agire e incertezza nei valori.
Per una
Democrazia Cristiana
La Democrazia Cristiana
è l'unico partito che non è morto per aver registrato la sua fine storica ma
solo per suicidio da parte dei suoi componenti. Essa non aveva denominazione di
Partito, cioè non voleva rappresentare "una parte" del popolo, ma
indicare una Mèta, ponendo insieme le due grandi parole del nostro tempo,
"democrazia" e "cristianesimo". Lungi dall'essere un
"partito dei cattolici" - come invece in molti esperimenti di
cattolici sedicenti avanzati: "Cattolici per il Socialismo",
"Cattolici popolari" ecc. - si orientava però su quei due valori che,
messi insieme, erano nelle attese di tutti, perché a tutti sta a cuore che la
società realizzi l'uguaglianza nella libertà. Dunque non una democrazia
"di cristiani" bensì una “Democrazia "cristiana", cioè che
ha ad obiettivo i principi etici politici del Cristianesimo. Il nome non è
questione secondaria: i nomi dipendono dalle cose e ne sono oggettivazione
("nominasunt consequentia rerum"), come il pensiero
cristiano ha affermato contro il nominalismo di sempre.
Ma come si può recuperare
il patrimonio ideale cattolico buttando a mare questa forte indicazione del
nome? Non sono falliti i grandi ideali Democrazia e Cristianesimo; è fallita
invece una politica legata a interessi di gruppi egemoni, che, incurante del
programma democratico e cristiano, ha fatto scelte liberiste e laiciste: in
perfetta contraddizione con gli ideali di fondo. Invece il mutamento di nome
indusse a pensare che fosse sbagliato puntare sull'ideale democratico, e sbagliato
richiamare la politica ai principi cristiani. Se si toglie l'etichetta
"cristiana", con quale coraggio mai osare presentarsi al mondo
cattolico da parte di un cattolico che voglia far politica: e in qual modo
distinguersi da altri partiti? I partiti si riconoscono non solo dai programmi
su singole cose da fare, ma soprattutto dai programmi orientati a determinati
princìpi.
E Democrazia cristiana
è nome più antico di Partito popolare, nacque assai prima e su idee di
una tradizione cattolica già attivamente operante nella società civile. Quando
poi i cattolici scesero in campo nel primo dopoguerra non poterono usare quel
nome antico perché ciò era osteggiato in ambienti ecclesiastici: e si scelse la
formula Partito popolare per indicare che la cattolicità entrava in
campo contro la società dei notabili, scegliendo le esigenze degli ultimi. Oggi
che la società è mutata e non è più solo una espressione di notabili, non ha
senso chiamarsi "popolare".
Di estremo significato
invece è dire: ci schieriamo con tutte le forze che intendono la politica come
realizzazione degli assetti democratici; ci schieriamo per illustrare la grande
novità e attualità della dottrina politica cristiana: l'unica organica dottrina
politica esistente. E mentre proporre il Partito popolare significò
indicare un’esperienza tramontata e non del tutto felice (che nell'impatto con
il fascismo si autodistrusse), richiamarsi alla DC significa invece riandare a
una esperienza storica che, con tutti gli errori (e con la rabbia che ha creato
nelle masse fedeli e non interpretate), ha rappresentato un punto fermo nella
stabilità e nella crescita civile del paese.
E oggi che sappiamo dalla
Magistratura che la DC non è morta – il suo harakiri fu solo un “tentativo di
suicidio” – possiamo cogliere l’occasione storica di pensare a una politica
tale da riproporre la dottrina sociale cristiana, senza la pretesa di essere
l’unico partito a interpretarla, ma con la speranza di offrire al Paese una
prospettiva popolo verso un futuro di prosperità e di libertà e di pace.
Fabrizio Fabbrini
Spero che dopo questa
prima pillola omeopatica non vogliate rifiutare la seconda, che vi
somministrerò tra breve.
ff
A 39 anni dalla uccisione di ALDO MORO per mano delle BR
Postato da admin [09/05/2017 19:56]
A 39 ANNI DALLA UCCISIONE DI ALDO MORO PER MANO DELLE BRIGATE ROSSE
In questo tempo segnato dall’antipolitica devastante abbiamo la convinzione che sia quanto mai prezioso attingere alla testimonianza e alla lezione di uomini politici come Aldo Moro la cui parabola umana può riconciliare con la nobiltà e grandezza della politica, un tipo di politica che possa essere come “parte dell’amore”, come diceva Moro stesso. Quell’impegno pubblico inteso come la più alta forma della carità, come diceva Paolo VI, come tutti sanno particolarmente vicino allo statista pugliese. Una rilettura dello statista di Maglie, figlio di genitori insegnanti, a sua volta “maestro”, rapito il 16 marzo poi barbaramente ucciso 9 maggio 1978 , come uomo e come politico, può essere oggi opportuna per quei giovani, nati dopo la sua morte, che se correttamente informati possano arrivare a nutrire una dimensione "altra" ed “alta” di quella memoria, segnata da questa ormai non breve distanza, da un evento tragico che ha caratterizzato la vita e le vicende successive della comunità nazionale. A questo proposito desideriamo riprendere alcune riflessioni da un volume stampato da una piccola ma coraggiosa casa editrice di Roma, Eurilink, per la penna di Lucio D’ Ubaldo, esponente del Partito Popolare di Martinazzoli, dal titolo significativo “Aldo Moro: la vanità della forza”. Si tratta di un raccolta degli articoli (46 in tutto) che Aldo Moro pubblicò su “La Rassegna” di Bari, nell’arco del biennio 1943- 1945, già pubblicata fuori commercio dall’ Università di Bari nel 1988. Forse un titolo aggressivo del tipo “Quando Moro non era (ancora) democristiano” avrebbe garantito all’insieme di questi contributi sparsi una maggiore efficacia evocativa ed anche una più larga diffusione editoriale. La loro lettura rivela il disagio o, più precisamente, l’insoddisfazione del giovane intellettuale cattolico per la fragilità della ripresa democratica, il vero cruccio per la crisi spirituale e politica del Paese, i segni di delusione per le incongruenze che sfibrano le scelte politiche del dopoguerra, anche ad opera delle nazioni vincitrici. Moro sorprende per lucidità di analisi e libertà di pensiero, come, ad esempio, agli inizi del 1945, quando risuona alto il suo “perché siamo all’opposizione”. È severo nel giudicare uomini e fatti. Non tiene nascosta neppure la critica a un certo modo di essere dell’antifascismo: in lui prevale un’esigenza di purezza e verità, che trapassa nella speranza di veder edificata la nuova democrazia su principi di rigore morale e umanità. In questa produzione giornalistica, giocata a tutto campo e sull’onda di determinate emergenze. Moro riversa la sua preparazione giuridica - per la quale aveva già ottenuto la libera docenza presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Ateneo barese - e la sensibilità, religiosa e sociale, di una generazione cattolica, cresciuta all’ombra della Chiesa di due grandi Papi: Pio XI e, soprattutto, Pio XII. Il titolo scelto per questo volume riprende una testuale espressione di Moro: la “vanità della forza”. Con essa si viene a identificare la tragica dialettica che avvolge la guerra, il cui sviluppo, affidato alla potenza delle armi e alla volontà di dominio sul mondo, non porta di solito a compimento le nobili premesse della giustizia e della libertà. È lecito, tuttavia, arguire come, sulla scorta di questo ragionamento, la vanità non si debba rintracciare nella sola dimensione straordinaria del conflitto armato, quanto piuttosto nella stessa normalità della vita politica. Ciò avviene, in conclusione, quando il bene comune e i valori della dignità umana perdono la loro centralità, sicché la lotta democratica declina fatalmente nella pretesa di misurare ogni cosa sulla base dei rapporti di forza, divenendo in assenza della giustizia un’espressione di “dura prepotenza”. Ecco perché, in conclusione, proprio oggi abbiamo bisogno di conoscere, apprezzare e, se possibile, seguire il pensiero di Moro, in un’ epoca in cui, a partire dalla nostra Italia, non c’ è giorno in cui non ci sia uno scontro, un attacco violento, una valutazione superficiale fra le varie parti politiche in gioco, quando invece avremmo bisogno di un confronto pacato, di analisi approfondite e non strumentali, di uno sforzo corale di mediazione e di ricerca dei punti comuni, per un avvenire meno incerto e convulso del nostro Paese. Luigi Bottazzi
IMPORTANZA DELLA DOTTRINA PER L'AZIONE POLITICA DEI CATTOLICI
Postato da admin [09/02/2017 21:02]
La “Dottrina sociale della
Chiesa”, come dice la stessa espressione, è una “dottrina”. Per molto tempo,
però, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, molti contestavano questo
termine e cercavano di sostituirlo con altri, come per esempio “Insegnamento”
sociale della Chiesa, oppure “Discorso” sociale della Chiesa. La parola
dottrina, si diceva, è inadatta ad esprimere bene il concetto. Il principale
argomento a sostegno di questa critica era che il termine “dottrina” era
ritenuto astratto, teorico, deduttivo, mentre la vita sociale e politica era
considerata concreta, sempre nuova, induttiva. L’uso del termine “dottrina”
lasciava intendere ancora il metodo di partire dall’alto anziché dal basso, dai
principi di per sé lontani dalla concretezza della realtà,
dall’intellettualismo delle formule. Il percorso doveva invece avvenire al
contrario, dalle situazioni umane, dai bisogni, dalle condizioni storiche di
ingiustizia e di povertà bisognava partire per elaborare nuovi orizzonti
dottrinali capaci di far progredire la prassi di giustizia e di pace. Questo
discorso era sostenuto da diverse correnti teologiche secondo le quali il
rapporto tra teoria e pratica doveva essere rovesciato, altrimenti – si
sosteneva – il messaggio cristiano risulta incomprensibile, appunto perché
calato dall’alto dentro una situazione umana ad esso estranea.
Alla fine, però, nessuno di
questi tentativi conseguì dei risultati. I termini “insegnamento” o “discorso”,
data la loro strumentalità, vennero abbandonati, il magistero ha continuato a
parlare di “Dottrina” sociale della Chiesa ed oggi questa è ancora
l’espressione adoperata da tutti, anche da coloro che non hanno nel frattempo
perso l’abitudine di contestarla. Si è verificato, piuttosto, un fatto nuovo.
Nessuno oggi propone più di sostituire l’espressione che contiene al proprio
interno il termine “dottrina”, però gli atteggiamenti sono messi in atto come
se quel termine non ci fosse. Non lo si contesta più direttamente, ma lo si
aggira indirettamente, non si nega più la sua legittimità di diritto ma la si
elude con il comportamento di fatto.
Questo è evidente soprattutto
nel mondo di insegnare la Dottrina sociale della Chiesa, laddove ancora essa
venga insegnata. Spesso i riferimenti dottrinali vengono semplicemente
accennati, mentre si passa subito al discernimento pratico davanti ai problemi
concreti, si passa subito alla prassi. Oppure, dopo un breve accenno alla
dottrina, si parte dalla analisi della situazione fatta con l’ausilio delle
scienze sociali e, da qui, si punta poi alla prassi. Di solito viene chiamato
metodo “induttivo”, che vorrebbe recuperare in un secondo momento la dottrina
ma invece la lascia in disparte. Un altro modo per aggirare l’ostacolo della
dottrina è di partire dalla persona. Non da Dio ma dall’uomo. Poi si passa alla
prassi. Questo fare a meno della dottrina non viene però più dichiarato, perché
sarebbe una nuova forma di dottrina, viene praticato invece di fatto. Per
questo oggi l’espressione “Dottrina sociale della Chiesa” viene formalmente
rispettata ma praticamente negata.
Devo chiarire, però, cosa
intendo quando uso la parola “dottrina” nell’ambito della Dottrina sociale
della Chiesa. La Dottrina sociale della Chiesa è “teologia” (e non
primariamente antropologia, sociologia o prassi). Inoltre essa si inserisce
nella tradizione della Chiesa in quanto è parte essenziale della sua missione.
Come tale, la Dottrina sociale porta con sé tutto il bagaglio della dottrina
della fede rivelata, il suo punto di vista non è “l’etica della situazione” ma
la fede apostolica. La dogmatica cattolica fa quindi da sfondo e sostanza alla
Dottrina sociale della Chiesa. Questo intendo per “dottrina”, dato che è
proprio su tutto ciò che si fondano i “principi di riflessione”, i “criteri di
giudizio” ed anche le “direttive d’azione” della Dottrina sociale della Chiesa.
Insegnarla partendo dalla situazione sociologica e andando direttamente alla
prassi è quindi un errore, perché si tagliano fuori i suoi fondamenti.
I documenti sociali del
magistero non hanno nessun dubbio che la Dottrina sociale della Chiesa sia “per
la pratica”. Ma pensano che la pratica debba essere illuminata dalla dottrina e
non viceversa, dato che non può essere un puro (e cieco) fare. E pensano anche
che la dottrina non debba essere intesa come astratta o teorica, come una
premessa di un sillogismo oppure un assioma di geometria. Chi critica la
dottrina spesso compie questo errore. Non solo la pratica è vita, ma anche la
dottrina è vita, anzi lo è in massimo grado al punto che la stessa pratica
prende vita da essa, dalla dottrina. La dottrina permette di vedere la
concretezza della realtà meglio delle stesse scienze sociali. Fu la dottrina a
permettere a Leone XIII di gettare un profondo sguardo sulla realtà sociale del
suo tempo e non le indagini sociologiche. Fu la dottrina a permettere a
Giovanni Paolo II di vedere a fondo i cambiamenti legati al crollo del muro di
Berlino e non le analisi dei politologi del tempo. La dottrina ci dice la
realtà, la realtà soprannaturale che Dio ci ha provvidenzialmente rivelato e,
per riflesso, la realtà naturale che proprio da quella viene illuminata. Gesù
Cristo è la Dottrina della Chiesa. Egli, che è la Verità, ci ha dato delle
verità e ci ha indicato dei doveri, non come dei gioghi insopportabili, ma come
espressioni del suo progetto d’amore. E ci ha dato anche l’aiuto spirituale per
sopportarli e viverli. La Dottrina è viva e vivificante.
Oggi si nota una
considerevole frammentazione dell’impegno pratico dei cattolici. Si vede che la
prassi che inizia dalla prassi e non dalla dottrina disarticola l’impegno
cristiano in mille rivoli, anche contraddittori tra loro, purtroppo, ed anche
incoerenti con le premesse della fede. Nella pratica spesso i cattolici
combattono per battaglie che non sono loro proprie ma di altri, anzi che sono
addirittura contro la Chiesa. Notiamo sbagli di valutazione religiosa e morale
molto preoccupanti, militanze in eserciti che combattono sotto altre bandiere,
prassi ispirate a teorie consolatorie del “minor male”, collaborazione con
altri in vista di scopi prossimi senza tenere conto di quelli remoti,
sottovalutazioni di mali e pericoli per la fede.
Del resto si può capire che,
senza un quadro di senso completo ed organico costituto dalla dottrina, anche
gli interventi pratici perdano di unitarietà di prospettiva. Viene meno la
strategia. Si pensa più a intervenire praticamente sul singolo problema acuto
ed emergente piuttosto che lavorare a lungo termine e sui diversi piani per
“costruire” una comunità umana secondo il progetto di Dio. Si pensa che il
cattolico debba tamponare, suturare, medicare, ma non lo si ritiene più in
grado di pensare organicamente per poi anche agire organicamente. Se dalla fede
deriva solo una prassi, il cattolico deve operare qui e ora nei confronti del
bisogno senza chiedersi tanti perché, ma se dalla fede deriva una dottrina, il
cattolico ha uno sguardo sulla realtà che gli permette di agire per recuperarla
nella sua funzionalità complessiva. La Dottrina sociale della Chiesa è per la
pratica, ma intesa in questo senso, non corto ma lungo, non estemporaneo ma
costruttivo. Per questo essa non può cessare di essere “Dottrina” sociale della
Chiesa.
Mons. Giampaolo Crepaldi
Qui ad Atene noi facciamo così
Postato da admin [18/05/2016 19:34]
Per
fare capire della nostra attuale e drammatica condizione di civiltà, non più
democratica e non più etica, ma estremamente progredita e avanzata per le
tecnologie e le loro applicazioni in tutti i campi, riporto, come
metafora, un pensiero di Pericle (Colargo, 495 a.C. circa – Atene,
429 a.C.) nell'antica Grecia, maestra di civiltà
Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce
i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una
giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai
i meriti dell'eccellenza.
Quando un cittadino si
distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo
Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la
povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si
estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l'uno dell'altro e
non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a
modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di
vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare
qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non
trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma
soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni
private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di
rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e
di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di
rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell'universale sentimento di
ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa
allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benché in pochi siano
in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di
giudicarla.
Noi non consideriamo la
discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità
sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene
è la scuola dell'Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice
versatilità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi
situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non
cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.
È forse questa la nuova
sfida:
riportare l'Etica nella
società, in generale, e nella politica, in particolare.
Ripristinare l'equilibrio rotto
tra Politica ed Economia/Finanza con quest'ultima che fissa gli obiettivi e comanda sulla
politica che è del tutto succube.
Riportare l'Etica nell'equilibrio del
principio del NOMA (Non Overlapping Magisteria), come è stato per secoli.
Ripristinare le regole della
legge Glass- Stegall Act la cui eliminazione da parte di Bill Clinton Presidente USA,
ha permesso l'invasione per trilioni di dollari di una moneta virtuale
(derivati- futures) da parte delle banche commerciali e finanziarie.
Antonino Giannone
Vice Presidente ALEF
(Associazione Liberi e Forti)
Inviato
da iPhone
Intervento di Antonio Fazio al convegno di Trento
Postato da admin [30/03/2016 19:28]
Intervento di Antonio Fazio al convegno
organizzato nell’ambito dell’evento"100
anni dalla Grande Guerra - La contesa del Monte Melino". Teatro Sociale di Trento.
Sono interventi: Antonio Fazio, economista, Governatore della
Banca d’Italia dal1993 al 2005; Michael
Ebner, presidente della Camera di Commercio di Bolzano e vicepresidente
dell’Associazione Europa; Carlo Dellasega, direttore generale della Federazione
Trentina della Cooperazione.
Antonio
Fazio, economista, Governatore della Banca
d’Italia dal1993 al 2005
Quando il mio amico, di
antica data, Ivo Tarolli, mi ha parlato di questa iniziativa sono stato
esitante; poi ho riflettuto: credo che si possa discutere di alcune questioni che
preoccupano molti cittadini italiani e di altri paesi dell’Europa.
Sono venuto per fareuna lezione, ma ancheper imparare. Hoascoltato due ottime relazioni,
quella del dottor Dellasega e quella del dottor Ebner, su argomenti specifici,
ma di rilievo.
Il problema dell’Europa,
concordo pienamente con loro, esiste ed è serio;c’è un problema grave di disoccupazione e sotto-occupazione: la
principale fonte di disuguaglianza sociale e di ancora non completamente
espresse conseguenze politiche. Ricordo di averne parlato qualche anno fa,
allorché il problema era molto meno grave, con Tobin. C’è poi il discorso dell’integrazione;
fino a che non ci comprendiamo come lingua, ma anche come cultura, tutto è
moltocomplicato.
La mia esposizione non si
sovrappone con quella dei due relatori che mi hanno preceduto. Farò un rapido
excursus di storia economica; poi parlerò della attuale situazione
dell’economia Italiana, in particolare collegandola alla situazione
dell’economia europea.
Ricorderete Historia magistra vitae. Il passo di
Cicerone è più ampio. La storia è testimone degli avvenimenti dei tempi, è luce
di verità, è la vita della memoria. Ha la stessa funzione che ha la memoria
nell’uomo; lamemoria costituisce la
nostra personalità; la conoscenza della storia costituisce la cultura e l’anima
di un popolo.
L’antichità ha una sua
tradizione, una sua forza; deve essere combinata poi con l’innovazione, con l’avanzamento,
con l’adeguamento ai tempi nuovi.
Stamattina, scorrendo i
giornali, ho letto: “La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere
dalle idee vecchie, le quali percoloro
che sono stati educati, com’è stata la
maggioranza di noi, si ramificano intutti gli angoli della mente”. È una frase di Keynes allorché affronta
alcuni grandi snodi della teoria economica.
Ho studiato con alcuni economisti
di rilievo nella storia del pensiero:
il problema che sta loro a cuore è l’occupazione. Il vero sviluppo di una
società si misura con il Prodotto Interno Lordo; ma l’ammontare del Prodotto
Interno Lordo è strettamente correlato
con il tasso di occupazione, della buona occupazione.
Qualche volta vedo la
funzione dell’economista come una sorta di conoscitore e, quando a responsabilità,di medico della società. La società è una realtà complessa. L’economia è
una parte rilevante della società, può essere studiata scientificamente. Il
medico ha come obiettivo quello dellasalute. L’economista, se svolge la sua funzione di medico sociale in
qualsiasi campo, sia della politica economica, sia della politica monetaria,
deve avere davanti a sé l’obiettivo dell’occupazione. Quando c’è disoccupazione
la società non sta bene, la società è malata!
La nostra Costituzione si
apre con un fondamentale articolo, il numero 1: “La Repubblica Italiana è
fondata sul lavoro”. Il lavoro è alla base dei diritti civili e della
cittadinanza; è la base della cittadinanza, anche se chinon ha lavoro può avere ugualmente diritti
civili, ma di fatto non gli interessa esercitarli perché il suo problema è
quello del lavoro; il lavoro non è solo fonte di reddito, ma anche fonte di
dignità.
Ho la sensazione che ci
siamo scordati, a livello politico, di questo fondamento. I grandi uomini e
fondatori dell’Europa, De Gasperi,
Adenauer, Schumann lo avevano ben presente. I
nostri padri costituzionali lo hanno consacrato nel primo articolo della nostra
Carta .
La Costituzione
è l’incontro delle culture cattolica, socialista, di sinistra e liberale. Tutti
si si trovarono d’accordo sull’importanza
politica del lavoro; parlarono e scrissero esplicitamente nella Costituzione di
Diritto al Lavoro.
Il fenomeno
del non voto e del voto di protesta è
strettamente legato a questa problematica. La crisi economica, la crisi di
occupazione, ha delle profonde influenze politiche oltre che sociali.
Per
studiare la storia dell’Economia del tempo, occorrono serie analisi,
riprendendole dagli economisti contemporanei, altrimenti si fanno chiacchiere. Questo è il
significato della frase, che ho citato, di Keynes, maggioreeconomista,
rivoluzionario e innovativo del pensiero economico, del ventesimo secolo.
Quando mi
sono trovato a lavorare e a studiare, negli anni sessanta, con Franco Modigliani - non aveva ancora ricevuto
il premio Nobel- mi disse: “Antonio, il problemaè l’occupazione”. Stessi argomenti dedotti
dalle lezioni di Samuelsonsulla
politica economica di Kennedy. Eravamo
in una classe, due professori con sei giovani. Samuelson ci parlava della
politica economica di Kennedy e la
spiegava con modelli economici di tipo
Keynesiano. Il Presidente Kennedy ascoltava molto i consigli che
provenivano da quella scuola.
Keynes nel libro “A Tract on Monetary Reform” del 1923 inizia
con l’andamento della inflazione dal 1913 prima dello scoppio della Guerra
Mondiale, fino ai primi sei mesi del ’23. Nel 1913, la Germania era la seconda
potenza economica mondiale; non abbiamo molti dati sul prodotto interno lordo,
ma abbiamo l’indicedella produzione di
energia elettrica che era allora, più di oggi, fortemente legata all’andamento all’industria.
La produzione dell’energia elettrica in Germania nel 1914 era maggiore di
quella di Inghilterra, Francia e Italia tutte insieme.
Nel 1914 viene meno Il Gold
Standard. Il Gold standard consisteva nel legame rigido tra il valore di una
moneta e l’oro. Ogni portatore della moneta emessa dallo Stato o dall’Istituto
di Emissione, il dollaro, la sterlina, il marco, il franco, talora anche la
lira poteva cambiarla in oro. Questo ordine monetario,aveva di fatto garantito per quasi un secolo
la stabilità dei prezzi a livello mondiale. Nel 1914, con lo scoppio della
Prima Guerra Mondiale, si abbandona il Gold Standard. Le spese della guerra
deprimono i valori delle monete , fanno crescere ovunque i prezzi. Nel Regno
Unito i prezzi passano da 100 nel 1913 a 160 nel 1923; in Francia i prezzi si
quadruplicano, in Italia quasi si sestuplicano. Gli Stati Uniti, che sono
diventati oramai la prima nazione industriale del mondo, mantengono il Gold
Standard fino agli inizi degli anni ’30; lo congelano a dire il vero tra il
1917 e il 1923. Dopo il 1923 il dollaro è la moneta più stabile a livello
mondialeNel Giappone i prezzi si raddoppiano.
Ma guardate che cosa succede
alla Germania, dove nel 1920 i prezzi erano aumentati già di 15 volte;nella prima metà del 1923aumentano di 7.650 volte rispetto a dieci
anni prima.
Parlo di questi aspetti
della storia economica e monetaria, perché si tratta di avvenimenti che hanno
inciso profondamente sulla storia politica e sulla cultura tedesca.
Costantino Bresciani
Turroni, economista Italiano di fama internazionale, è autore del trattato :
“Le vicende del Marco Tedesco”. Sono vicende sconvolgenti per la loro
intensità e per le gravi conseguenze politiche. La politica ha un ruolo
rilevante, determinante per l’economia,in quel periodo storico: sono gli
anni della Repubblica di Weimar; è il
primo tentativo di costruzione di una Repubblica Democratica Tedesca che
finisce però miseramente e volontariamente nelle mani del nazismo A causa dell’inflazione, quindi della
successiva politicadeflazionistica,
anche negli anni della grande depressione. Tra il 1913 e il 1918 l’aumento
annuo dei prezzi è del 19%. i Tedeschi sono convinti di vincere la guerra;
aumentano fortemente le spese pubbliche. Improvvisamente si rovesciano le sorti;
cade lo Stato, il secondo Reich di Bismarck, l’ imperatore va in esilio. Nasce
la Repubblica di Weimar.
A causa delle esagerate
riparazioni di guerra richieste dagli Stati vincitori, in primo luogo dalla
Francia, continuano in Germania le gravi difficoltà dell’economia, anche per
tentare di venire incontro, con sussidi
e forme di occupazione fittizia, a quasi 6 milioni di uomini che dalla guerra
rientrano nelle attività civili. L’equilibrio viene trovato ricorrendo
progressivamente alla stampa di moneta. Il marco inizia a perdere valore nei
confronti del dollaro e delle altre monete: salgono i salari e i prezzi, lo
Stato riduce la disoccupazione creando nuova moneta. Nel corso del 1919
l’aumento dei prezzi sale in un anno al 60%, nell’anno successivo sale al 240%.
Nel 1923 a causa anche dell’invasione della Ruhr da parte dei Francesi
l’inflazione sale tra il 15 e il 40% al giorno
Si raccontano gli aneddoti, sono veri, degli avventori che si sedevano al
bar perprendere il caffè; quando si
alzavano il prezzo era raddoppiato. Diventa usuale in questa fase, per i dipendenti
pubblici, ma anche privati, di andare a riscuotere gli stipendi con le carriole.
Gli stipendi e i salari erano pagati in biglietti di banca. I francobolli con l’ immagine di Bismarck erano
di molti milioni di marchi; non ce la facevano più a stamparli a valori
crescenti; le lettere venivano spedite
affrancandole con biglietti di banca. Si
stampano banconote da mille miliardi, da cinquemila miliardi, da centomila
miliardi di marchi; non fanno in tempo a stamparle da ambedue le parti, sono stampati
solo su un lato.
I prezzi a Berlino nel novembre del ’23: 1 kg
di pane costava 428 miliardi di marchi, 1kg di burro 5.600 miliardi di marchi,
un francobollo 100 miliardi. È un fenomeno di cui non si ha nessun altro
precedente, fortunatamente, nella storia.
I Tedeschi sono stati capaci di creare un’inflazione
della quale gli studiosi stanno ancora cercando di capire le cause. Cosa
avevano fatto i Tedeschi? Una cosa che hanno ripetutonella seconda guerra mondiale: durante la
guerra, iniziano ad espanderefortemente
il debito pubblico, perché sperano di vincere la guerra e rifarsi con i
territori conquistati. Non ci riescono, debbono stampare moneta in misura
sempre crescente. Quando l’inflazione è così forte diventa un fenomeno
puramente monetario. Nel Novembre del 1923 viene introdotta una riforma che
comporta una riduzione drastica della quantità di moneta, stabilizzazione e in
alcuni casi riduzione dei prezzi, ma con enormi disagi della popolazione che non
ha più sufficiente reddito né per l’alimentazione né per acquistare il carbone
per ripararsi dal freddo. Si arriva ad una nuova moneta, il nuovo marco il cui
valore viene stabilito in mille miliardi di vecchi marchi.
Dal 1924 in poi la politica economica
tedesca, come chiarito da Bresciani Turroni ed è vero ancora oggi, si è ispirata
al concetto che la preoccupazione della stabilità monetaria dovesse prevalere su
qualunque altra considerazione. Ecco perché mi interessava raccontare questo;
bisognava mantenere stabile la moneta a qualunque costo, anche a prezzo di
ripercussioni temporaneamente dannose per l’economia. Quando sentite il
Ministro Schäuble… Lo Statuto della Banca Centrale Europea è più o meno su
questa linea: la BCE ha l’obbligo di mantenere la stabilità della moneta. La
stabilità della moneta significa inflazione
del 2% all’anno. Adesso siamo all’1%, addirittura sotto, ad un livello forse di
deflazione, questa è una malattiaestremamente grave: Il 2% di inflazione è un fenomeno molto meno grave del
2% di deflazione, perché la deflazione frena gli investimenti.
Keynes nel 1923, nel libro che ho citato,
aveva scritto: ”In verità, il Gold Standard –cioè il rigido legame tra la
moneta e l’oro- è una reliquia
barbarica. Tutti noi, dal Governatore della Banca d’Inghilterra in giù, siamo
ora soprattutto interessati nel
preservare la stabilità dell’economia, dei prezzi e dell’occupazione”; e non
siamo legati a questo dogma, di avere un rapporto fisso tra il prezzo dell’oro
e la moneta”.
Nel 1925, l’Inghilterra, nel tentativo di
riassumere il suo primato nella finanza internazionale rientra nel Gold Standard;
ma lo fa ai prezzi del 1913. Keynes era divenuto famoso per la sua critica
devastante al Trattato di Versailles, che è essenzialmente alla base del disastro
della economia tedesca. Nel trattato di pace di Versailles, imposto con la
forza delle armi alla Germania, criticato anche da Eugenio Pacelli, allora
nunzio in Baviera, si richiedono delle riparazioni di guerra alla Germania che
di fatto ne minano l’economia e nella visione di Keynes, ciò avrebbe comportato
un grave danno, data l’importanza della Germania, per tutta l’economia europea.
Nel Novembre del 1923,
mentre si cerca di fermare l’inflazione galoppante c’è il fallito putsch di
Hitler della birreria di Monaco. Hitler viene arrestato, viene temporaneamente
tolto di mezzo, ma viene poi assoggettato ad una condanna piuttosto mite da
parte di una magistratura compiacente.
La violenza è una costante nellaprima Repubblica di Weimar; i primi tempi sono
caratterizzati da omicidi politici, da scontri a mano armata nelle strade
cittadine, che continuano per tutti gli anni venti. La disoccupazione dà luogo
ad una importante presenza del Partito Comunista. La reazione sono i partiti
dei destra e alla fine il nazifascismo. Questo viene appoggiato, alla fine
degli anni venti, in qualche misura, anche dalle classi industriali.
Nella Repubblica di Weimar si poteva governare
con decreti. Il bilancio complessivo doveva comunque essere approvato dal
Parlamento. Il Cancelliere, cioè il capo del governo, aveva il potere di
sciogliere il Parlamento. il Presidente della Repubblica nominava il
cancelliere; veniva eletto direttamente dai cittadini a suffragio universale.
Nel Novembre del 1918 viene
eletto Presidente della Repubblica il socialdemocratico Ebert. Governa
saggiamente per sei anni, anche durante il periodo della grande inflazione.
Muoreprematuramente nel 1924. I vari
partiti non riescono a trovare un accordo per concentrare il voto popolare su
un cattolico, uomo del centro. Viene eletto Presidente della Repubblica l’anziano
generale PaulHindenburg, eroe della
guerra vittoriosa per la Germania franco prussiana del secolo precedente.
Alla stabilizzazione
monetaria del novembre 1983, fa seguito un apolitica nettamente deflazionistica
attuata da una nuova banca centrale indipendente dal Governo. La politica
deflazionistica si prolunga nel corso di tutti gli anni venti.
Nel marzo del 1930 Hindenburg
nomina Cancelliere un esponente del Centro, Heinrich Brüning, convinto
deflazionista. Sono gli anni della grande crisi. Come si combatte la grande
crisi? Nella visione di Brüning con una ulteriore deflazione, volta illusoriamente
ad aumentare il risparmio. La Germania era il secondo Paese industriale a
livello mondiale dopo gli Stati Uniti. Alla crisi del 1929 iniziata a livello
internazionale e già manifestatasi fortemente nel Stati Uniti si aggiunge la
deflazione in Germania. Il Parlamento non approva il bilancio di Brüning. Il
Cancelliere scioglie il Parlamento; nelle successive elezioni il nazismo
conquista il 18% dei seggi. Si insiste nella politica di deflazione. I nazisti
nelle elezioni del 1932 per la rielezione del Presidente diventano il primo
partito con il 37% dei voti. Nel Marzo dello stesso 1932 il governo Brüning
cade per questioni relative a sussidi alla agricoltura. Continuano le violenze
e i disordini politici, subentrano nuovi governi guidati da uomini del centro,
ma essenzialmente di coalizione.
Si comincia a parlare di politiche
di tipo Keynesiano; di effettuazione di lavori pubblici per far fronte alla
disoccupazione, enormemente aumentata. Non se ne fa nulla per timore
dell’inflazione. Si insiste nella deflazione. Nel 1932 si parla in Germania di
quasi sei milioni di disoccupati, erano
soltanto ottocentomila nel 1928. Nel Presidente Hindenburg matura la decisione
di chiamare al governo i nazisti. Viene offerto il governo ad Hitler che
richiede soltanto per sè il cancellierato e la posizione, per il suo partito,
del ministero dell’interno. Gli altri membri del Governo si illudono di poter
tenere a freno le tendenza estremistiche di Hitler. Hitler assume formalmente e
legalmente il potere il 30 Gennaio 1933. Sono interessanti le fotografie,
immediatamente dopo la nomina, dell’incontro di Hitler con i maggiori uomini
di affari tedeschi.
Non mi soffermo sulla
politica di Hitler di presa del potere, dell’assunzione di pieni poteri,
sospendendo tutte le garanzie costituzionali, con un voto a grande maggioranza
del Reichstag estorto con la violenza e con il terrore. Iniziano violenze e
delitti politici da parte dei nazisti nei confronti dei comunisti, dei
sindacalisti, dei socialisti. Hitler non riesce a piegare pienamente l’esercito
con la sua grande tradizione prussiana né la Chiesa cattolica. Alcuni esponenti
cattolici, in una prima fase, avevano appoggiato il nazismo, poi rapidamente
vengono richiamati o comunque si ritraggono in una posizione polemica. La
Chiesa protestante si spacca in due, una parte si oppone al nazismo; un famoso
esponente di questa, trucidato dai nazisti, è il grande teologo Dietrich Bonheffer.
Ma Hitler rilancia anche
l’occupazione.Prendendo esempio
dall’autostrada Napoli-Pompei, in Italia, di trenta kilometri, lancia il
progetto e lo realizza in pochi anni di una autostrada di tremila chilometri, tra
il Mare del nord e la Germania meridionale. Viene fondata, attraverso i
sindacati, la Volkswagen; per diffondere l’automobile a livello popolare lo
stesso Hitler progetta il maggiolino; ne affida lo sviluppo all’ingegnere
Porsche, ma non si riesce a produrlo prima della guerra. L’Economia tedesca,
all’avanguardia in molti campi industriali, era concentrata per i trasporti
sulle ferrovie; la motorizzazione privata era pressoché inesistente.
La Produzione industriale della Germania dal
1932, in cinque anni raddoppia, ma nell’ultima fase di questo periodo inizia la
produzione di carri armati, aerei e armi. Viene rilanciata l’occupazione e
nello stesso tempo viene diffusa l’ideologia della Grande Germania. Hitler,
questa è la sua pazzia, si convince a poco a poco, di essere il più grande
tedesco della storia; vorrà trasformare Berlino in capitale dell’Europa.
Che cosa è avvenuto negli
altri Paesi? L’Inghilterra nel 1925 rientra nel Gold Standard. Keynes nel pamphlet “Economic consequences of
Mr Churchill” critica la mossa del Cancelliere dello Scacchiere (Ministro delle
Finanze) mettendo in luce la perdita di competitività, essendo stato il cambio
della sterlina in termini di oro fissato ancora di nuovo ai prezzi del 1913.
L’aumento dei salari e dei prezzi in Inghilterra era stato più rapido di quello
degli Stati Uniti. Il cambio della moneta inglese troppo elevato si rifletterà
in una riduzione della capacità di esportazione e in una tendenza all’aumento
delle importazioni. L’economia inglese risente negativamente, negli anni
seguenti, dell’errore nella fissazione del cambio, compiuto per motivi di
prestigio, al valore di prima della guerra; per tentare di far riprendere a
Londra un ruolo centrale nel sistema monetario internazionale. Critiche dure
sono mosse da Keynes anche nei confronti della Banca d’Inghilterra, che in un
periodo già di difficoltà economica e di disoccupazione, attua una politica
restrittiva per tentare di abbassare salari e prezzi. Il risultato è un peggioramento della disoccupazione.
Ma la mossa dell’Inghilterra
si rivela ancora più grave poiché da un lato la Francia decide ugualmente, dopo
qualche anno, di rientrare nel Gold Standard, ma lo fa ad un tasso di cambio
svalutato. Inoltre molti altri Paesi, circa trenta, a livello mondiale, rientrano nell’oro, sempre per motivi di
prestigio, seguendo l’esempio dell’Inghilterra.
La politica monetaria allora
intesa, in senso grettamente limitato, come difesa del rapporto di cambio in
ogni Paese, tra la moneta legale e l’oro, distrae da una politica economica che
avrebbe invece dovuta essere indirizzata a combattere l’incipiente recessione
dovuta alla crisi internazionale. Si è già detto della politica tedesca.
L'Italia nel 1926 attua ugualmente una politica di forte restrizione, la
cosiddetta quota 90. Gli economisti italiani consigliano a Mussolini di seguire
la politica che Keynes aveva ironicamente consigliata a Churchill, di ridurre
del 10%, d’imperio, prezzi e salari. Churchill non aveva il potere di farlo in
Inghilterra, ma Mussolini aveva la possibilità di farlo in Italia, cosicché la Quota
90, rapporto di cambio tra Lira e Sterlina viene ad essere popolarmente
interpretata come la riduzione al 90% di tutti i prezzi, tariffe, stipendi e
salari.
Ciò in effetti non basta per riacquisire
competitività verso l’estero; occorrono altre azioni forzate di riduzione di
prezzi e salari. Comunque agli inizi degli anni trenta l’Italia mette in atto una politica di grandi
opere pubbliche, di fatto combattendo in qualche misura la recessione.
Il tentativo a livello di
molti paesi grandi e piccoli di legare le monete ai prezzi dell’oro oramai
fuori linea, con i livelli dei prezzi interni fa precipitare l’economia
mondiale nella grande crisi.
La crisi era iniziata per motivi
di mercato, in agricoltura, dove si era creato dopo la Prima guerra Mondiale,
un eccesso di produzione rispetto alla domanda. Si manifesta nell’estate del 1929 negli Stati
Uniti attraverso una brusca caduta della produzione industriale. Segue il
tristemente famoso crollo dei corsi delle azioni a Wall Street, dove
speculazioni avventate avevano spinto eccessivamente in alto le quotazioni delle
azioni. Va detto a chiarimento dei meccanismi in atto a livello mondiale, che
la forza produttiva degli Stati Uniti, attraeva l’oro delle banche centrali da
tutto il mondo verso il mercato finanziario di New York. Anche la Francia
accumulava oro grazie alla svalutazione del cambio del Franco. Tutti gli altri
Paesi perdono oro, finché iniziano crisi
bancarie, dapprima in Austria e
Germania. L’Inghilterra comprende che non piò reggere con il tasso di cambio e
lascia svalutare la sterlina a settembre del 1931. La crisi continua ad
espandersi a livello internazionale con ripercussioni politiche fatali.
Gli Stati Uniti escono dalla recessione, a
seguito della vittoria del candidato democratico Roosevelt sul candidato
repubblicano Hoover. Attuano una politica di forte espansione degli
investimenti pubblici di chiara marca Keynesiana, svalutano fortemente il
dollaro nei confronti dell’oro. L’economia americana, dopo la forte caduta
dovuta alla recessione mondiale, riprende a crescere al ritmo del 10% all’anno
in termini reali.
In Germania la soluzione
della crisi passa attraverso la presa di potere delnazismo, con il rilancio dell’economia cui si
è accennato sopra, ma con le conseguenze politiche ben note.
Un articolo scientifico di
Ben Bernanke del 1997, allora professore, dimostra che in tutto il mondo la
ripresa per ogni Paese si ha, nel corso degli anni trenta, mano a mano che le
singole economie si staccano dal Gold Standard.
L’avvento del nazismo, conseguenza
politica della grande inflazione trasformatasi alla fine degli anni venti nella
grande depressione, trascina l’Europa e poi il Mondo nella seconda guerra
mondiale.
L’Economia mondiale riprende
per le spese di guerra, ma con enormi costi umani, civili e politici.
Nel 1997 l’Italia entra nell’Europa
dell’Euro.
Nel Trattato di Roma del
1957 l’obiettivo dell’Unione- si comincia con la Ceca, Comunità Europea del
Carbone e dell’Acciaio - è lo sviluppo economico. Un principio solennemente espresso nel
Trattato che deve presiedere alla politica economica è la sussidiarietà. Ogni Paese deve
attuare la politica che ritiene adatta al suo sistema economico e alle sue
istituzioni e coordinarsi con gli altri per tendere all’obiettivo comune della
crescita.
La Commissione deve aiutare
gli Stati che non riescono ad inserirsi favorevolmente nel processo di crescita.
È cambiato qualcosa? Dov’è
finito il principio di sussidiarietà?
Si dice a livello politico “l’Italia
deve entrare in Europa”. Ero Governatore e obietto : “Ma noi siamo già in
Europa! Siamo stati fondatori, ma siamo pronti ad entrare nell’Euro?” A mia
insaputa si decide di rientrare nel Sistema Monetario Europeo (Sme); ne eravamo
usciti per l’incapacità di tenere il cambio a causa della insufficiente
competitività nei costi di produzione interni. Il rientro nel sistema monetario
prelude alla partecipazione alla moneta comune. Il Governatore ha l’alternativa
di due linee di comportamento: può dire “non mi interessa, me ne vado” oppure
“faccio ciò che mi si chiede”aiutando il mio Paese a realizzare gli
obiettivi che si è dato a livello politico.
Ritenevo che fosse opportuno
quanto meno attendere per entrare nella moneta comune, ma la decisione politica
era esplicitamente orientata per una adesione immediata al sistema.La politica monetaria aveva svolto i suoi
compiti di stabilizzazione del cambio: riduzione del forte spread tra titoli
pubblici italiani e titoli pubblici tedeschi che aveva raggiunto 900 punti.
Aveva drasticamente frenato l’inflazione. Non aveva potuto certamente ridurre
il rapporto tra debito pubblico e Prodotto Interno Lordo al di sotto del 60%
richiesto dai trattati europei per partecipare alla moneta comune. Ritenevo
pertanto che dovessimo attendere e in particolare fare delle politiche volte ad
aumentare la produttività dell’industria e in generale e ridurre il costo del
lavoro per unità di prodotto.
Come ho raccontato in altre
occasioni, nella riunione drammatica nella notte del 24 marzo 1997 a Francoforte, quando si
discute di quali Paesi abbiano i requisiti per entrare nell’Euro. Il Belgio e
l’Italia non hanno i requisiti, sono fuori per l’eccesso di debito pubblico. La
Grecia è fuori, ma ha deciso di non
entrare subito. Eravamo in quindici allora; L’Inghilterra decide di restare
fuori indefinitamente e così anche la Danimarca e la Svezia. Perché l’Italia deve restare fuori? Deve
restare fuori perché il rapporto fradebito e prodotto interno lordo è
molto al di sopra della soglia richiesta. Io dico: “Cari amici governatori, io
non posso accettare questo e vi avverto che se domani si scrive nel Rapporto (cosiddetto)
di convergenza che l’Italianon
partecipa, salta il Sistema Monetario Europeo e viene meno l’avvio dell’ Euro. Non
è una minaccia, è analisi economica”.
Nel rapporto si finirà per
scrivere che l’Italia è molto preoccupata del suo elevato debito pubblico. Era
mezzanotte, non potevo consultare alcuno a Roma; scrivo sul momento un piano pluriennale
di rientro del debito pubblico, impegnandomi a proporlo al Governo per farlo
diventare operativo.
Con un linguaggio criptico, l’Italia viene
ammessa.
Ricordo che purtroppo di
quelle promesse la politica italiana, dopo averle assunte formalmente, anche per
l’evoluzione politica non ne ha fatto nulla. Il rapporto fra debito pubblico e
prodotto interno lordo ha continuato ad aumentare paurosamente, fino al 2015.
Vado in Parlamento, vengo
chiamato da una Commissione della Camera. Mi si chiede del perché del mio
atteggiamento circa l’entrata, fin dall’inizio, nella moneta comune.
Riferisco.
“Tutta la politica monetaria
che ho attuato nel corso degli anni novanta era volta a ridurre l’inflazione e
lo spread.Lo spread nel 1995 era
arrivato a 900 punti perché i titoli Tedeschi rendevano il 5,5% e i titoli
Italiani il 14,5%. Non ho fatto né consigliato alcun macello in termini di politica economica, ho condotto soltanto la
politica monetaria adeguata ed ho dato dei messaggi consoni ad una aspettativa
razionale di andamento delle variabili economiche, inclusa la possibilità di
entrare nella moneta comune.” Lo spread
si è ridotto a meno di 200 punti. Avevo condotto una politica monetaria per stabilizzare
il cambio ed annullare l’inflazione. Il banchiere centrale doveva in ogni caso
condurre le politiche che ho descritto, indipendentemente dal partecipare o
meno alla moneta comune.
Spiegai ancora: “Sentite,
noi entriamo, ma il problema è come restare nell’Euro. Quando si perde la manovra del cambio, si
dovrebbe riacquistare una flessibilità del costo del lavoro e della finanza pubblica
che ci permetta di rimanere competitivi”. Abbiamo l’esperienza del Sistema Monetario
Europeo. Qualcuno diceva: stando nel sistema spingeremo le imprese ad aumentare
la produttività e a contenere i salari; ma ciò non era avvenuto: il sistema non aveva funzionato. Anche quando ero
a capo del Servizio Studi, avevo sempre seguito con attenzione questi fenomeni: questo meccanismo non
funziona. Affermo in Parlamento: “non avremo più i terremoti monetari, ma
avremo una sorta di bradisismo; sapete che cos’è il bradisismo? È il terreno
che si abbassa sotto il livello del mare gradualmente, come avvienea Pozzuoli. Ogni anno perderemo qualcosa in
termini di crescita rispetto agli altri Paesi.”
Guardate i dati della
competitività italiana. Il Clup, che è il costo del lavoro per unità di
Prodotto, aumenta in Italia tra il 2000
e il 2003 del 9,9%; in Germania del 1,7%;
in Francia del 1,5%. Sapete che Germania
e Francia sono i nostri maggiori partner e competitori sul mercato
internazionale dei prodotti industriali. In tre anni abbiamo perso 8 punti di
competitività. Nel primo semestre del 2004 in Italia il CLUP aumenta del 5,5%; in Germania si riduce perché aumenta
fortemente la produttività.
La produzione industriale in
Italia tra il 2000 e il 2004 scende del 2,8%, in Germania sale del 3%, in
Francia del 2%;nell’ Europa dei dodici (Italia inclusa) cresce del 3%. Dai grafici si vede che la produzione industriale italiana
ha lo stesso ciclo di quella europea, ma mentre quella europea sale, quella italiana
scende. Mi piace molto farmi da solo i conti sulle principali variabili
macroeconomiche; me li continuo a fare regolarmente da solo con i dati ufficialmente disponibili.Mi
sono calcolato da dopo la crisi del 2006
ad oggi gli andamenti in Italia e in alcuni altri Paesi dei dati più rilevanti.
il Prodotto Interno Lordo in questi nove
anni è diminuito in Italia del 5,5%, meno 0,6% all’anno; nel resto dell’Europa
dell’Euro che comprende non solo la Germania e la Francia ma anche la
Slovacchia, l’Estonia, la Spagna, il Portogallo, la Grecia, cresce dello 0,8%
all’anno. Osservate il bradisismo, uno sprofondamento dell’ 1,4% all’anno.
Quelloche muove l’economia sono gli investimenti
produttivi, che sono diminuiti in Italia tra il 2006e
il 2014 del 27%; nel resto dell’Europa sono
aumentati.
Le esportazioni sono
aumentate in Italia dal 2006 del 14,6%. Il problema è che le esportazioni crescono
molto più rapidamente dell’economia e
nel resto dell’Europa sono aumentate del 35%.
E come va il Clup? In Italia
sempre dal 2006 in media è aumentato del 2,4%, nel resto dell’Europa che
comprende anche Grecia e Portogallo dell’1,5%, ma in Germania e in Francia l’aumento
è stato pressoché nullo.
Allora si debbono fare le riforme, ma non sarà
la riforma del Senato a ridurre il costo del lavoro, punctum dolensdell’Italia
per uscire da questo stallo. Avremmo, per esempio, da imparare dalla Germania circa
la partecipazione dei sindacati nell’indirizzo e gestione delle imprese. Adam
Smith, che è ritenuto il fondatore della moderna economia politica, diceva che
i sistemi economici si reggono sulla concorrenza e sul mercato, ma anche sulla sympathy, l’amicizia civile che è unità
di intenti. Se non c’è unità di intenti nelle parti sociali, nel sistema, non
si avanza. Non si può vivere di sola concorrenza e tanto meno di lotta di
classe.
Mi avvio alla conclusione. Vediamo
l’economia mondiale. Il Prodotto Interno Lordo degli Stati Uniti è di circa 18
trillion, 18 mila miliardi di dollari l’anno. Il Pil della Cina è circa la
metà, (tenete presente però che negli Stati Uniti vivono trecento milioni di
persone, nella Cina sono un miliardo e trecento milioni, quindi ilreddito pro capite è un ottavo). Il Giappone ha
un PIL di circa 5 mila miliardi. La Germania, in base al cambio dell’Euro 1,10 per
Dollaro, ha tre 3 miliardi di dollari di reddito; la Francia 2,3, l’ Italia 1,7.
L’area dell’Euro: circa 11 mila, un po’ superiore alla Cina, notevolmente
inferiore agli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno più del 20% del Pil mondiale,
l’area dell’Euro circa un ottavo, l’Italia ne ha il 2% circa.
La bilancia dei pagamenti, che
è la differenza tra quello che si esporta e quello che si importa, negli Stati
Uniti è deficitaria per 400 miliardi di dollari, l’ultimo dato disponibile. Come
fanno gli Stati Uniti? Creano dollari, che è la principale moneta
internazionale, per coprire il disavanzo. La Cina, di cui tanto si parla, ha
quasi 300 miliardi di dollari l’anno di surplus della bilancia dei pagamenti. Pagano
pochissimo il lavoro, il costo del lavoro è forse un decimo di quello europeo e
degli Stati Uniti; la qualità dei
prodotti in molti casi non è però quella
europea e americana. Ma il fatto più straordinario, è che la Germania, proprio per
l’aumento di competitività che inizia nel 2000, ha un surplus come quello della
Cina. La Germania èun terzo della Cina,
ma ha un surplus della bilancia dovuto al fatto che ha un’industria
particolarmente efficiente. Ma gode grazie all’euro di un cambio favorevole in
quanto altri paesi, tra i quali l’Italia, la Spagna, la Grecia, anche la
Francia, di fatto abbassano il valore del cambio. Un Paese che ha un surplus
della bilancia dei pagamenti dovrebbe reinvestirlo in spesa reale o prestarlo
ad altri paesi che hanno un deficit, altrimenti crea deflazione nel sistema di
cui è parte.
Il piano che aveva ideato Juncker
di investimenti per 300 miliardi l’anno era la soluzione giusta; l’area dell’Euro
ha un surplus, nei confronti del mondo esterno del 3% del suo prodotto interno
lordo. Cosa fa? Ha disoccupazione, ha deflazione, può e deve spingere gli
investimenti. Il ministro greco Varoufakīs, che
è stato tanto criticato, aveva capito le cose molto meglio degli altri. Aveva
argomentato: “Se invece di puntare tutto sul quantitatives
easing (Draghi si sta muovendo nella
giusta direzione, al massimo di quanto
gli concede lo statuto),comprando titoli pubblici, quindi coprendo una spesa
già effettuata,i 300 miliardi all’anno
fossero stati impegnati in progetti di investimento scelti dalla Banca Europea
degli Investimenti e i relativi titoli acquistati dalle banche centrali
nazionali, avremmo un immediato, notevole sollievo della situazione economica.
La politica monetaria molto espansiva aiuta l’
economia, in particolare in questo momento attraverso il cambio, che dopo i
livelli che aveva raggiunto proibitivi per le economie più deboli è ora tornato
su livelli più naturali. Comunque se il cambio è in linea con le economie più
deboli è estremamente favorevole per quelle più forti.
Keynes ci
ha insegnato: in un’economia dove c’è disoccupazione, il risparmio lo formano
gli investimenti. Effettuando gli investimenti aumenta il reddito e si forma il
nuovo necessario risparmio. Non bisogna ragionare, come si fa in Europa, come
se i soldi fossero già in cassa, questo è un ragionare da contabili, non
tenendo conto delle più elementari nozioni di macroeconomia.
L’area
dell’Euro soffre di problemi gravi di disoccupazione. La domanda globale è
insufficiente. I riflessi sociali sono
evidenti, seguiranno purtroppo riflessi anche politici. I surplus di bilancia
di pagamento di alcuni Paesi dovrebbero essere impiegati in investimenti reali,
non finanziari,in patria o in altri Paesi dell’area. Una politica del
genere aiuterebbe anche l’economia mondiale.
Un’ultima
considerazione. Nel 2007 il Rapporto tra Debito pubblico e Prodotto Interno
Lordo era nel nostro Paese pari a 103, è arrivato a 137 a seguito delle
politiche di aumento dell’imposizione fiscale suggerite dalla Commissione
Europea. O è sbagliata la diagnosi o è sbagliata la medicina, ma se è sbagliata
la diagnosi, la cura è sicuramente controproducente.
Se in una
economia già in difficoltà si accresce il livello di imposizione fiscale
l’attività economica viene ulteriormente frenata con gli effetti negativi
sull’occupazione e sulla società. L’unico modo di ridurre il rapporto tra
Debito Pubblico e Prodotto Interno Lordo è stimolare la crescita dell’economia.
Se la politica che si pratica in Europa e che viene consigliata per l’Italia
non ha questo risultato non si esce dal circolo vizioso.
Il discorso
è aperto, si deve qui entrare in una analisi economica più approfondita e nelle
connesse implicazioni politiche.
Ad una prossima occasione. Grazie
dell’attenzione!
ALL'ITALIA di Giacomo Leopardi
Alcune strofe della canzone leopardiana All'Italia, che descrivono perfettamente la realtà di oggi
PARAFRASI
L’apostrofe ‘O patria mia’, evoca l’esordio della celebre canzone petrarchesca
(Canzoniere CXXVIII), che è il modello a cui si rifà tutta la canzone; vedo le
mura di Roma, gli archi di Trionfo, le colonne, le statue e le torri dei nostri
avi ma non vedo (non
vedo...non vedo -Anadiplosi)
la gloria non vedo l'alloro e le armi dei quali erano carichi i nostri
antenati.
nuda…mostri’ si riferisce all’Italia che viene personificata ( Personificazione)
e sta a significare: Ora sei indifesa, mostri nuda la fronte e spoglio il
petto. Aimè quante ferite, che lividi, che sangue! Ti vedo come una donna formosissima (= latinismo per esprimere bellezza e maestà)!
Io chiedo al cielo e al mondo: “Dite, dite: chi l'ha ridotta in tale stato (tale)?
E quel che è peggio è che ha entrambe le braccia incatenate; così che siano
sparsa la chioma e senza un’elmo (senza velo =
cioè spoglia d’ogni distinzione regale) siede in terra abbandonata e afflitta
nascondendo la faccia tra le ginocchia, mentre piange!
Ed hai ben ragione di piangere, Italia mia, popolo nato per vincere nella buona
e nell'avversa sorte (nella
…ria’ = nella buona e nella cattiva sorte).
Se i tuoi occhi fossero due fonti perenni, mai il pianto potrebbe commisurarsi
(Adeguarsi = commisurarsi a, pareggiare il) alla tua
sciagura e allo scempio (tuo
danno ed allo scorno);
CREDITO COOPERATIVO, BANCHE POPOLARI, ECONOMIA REALE, COSTITUZIONE
"Il discostarsi in partenza anche di poco dalla verità si moltiplica all'infinito via via che si procede"
(Aristotele, Trattato sul cielo)
Il bonapartismo economico
Il d.l. 3/2015 sulle banche popolari, un provvedimento frettoloso, superficialmente ed, in parte, erroneamente motivato, privo di un dibattito pubblico, o anche solo parlamentare, adeguato alla grandissima importanza della materia su cui incide, solleva serie inquietudini e preoccupazioni sia sotto il profilo della legittimità costituzionale che della funzionalità economica e creditizia, che dei suoi riflessi generali sulla concezione generale dell'ordinamento economico.
I due aspetti sono peraltro inscindibili. La corretta valutazione della legittimità costituzionale richiede, infatti, un approfondimento degli aspetti economici e creditizi. Questi, a loro volta, necessitano di un quadro di riferimento istituzionale e giuridico. Ci muoviamo ancora nell'ambito di un diritto fondamentalmente privatistico e liberistico e della libertà d'impresa, come è quello della Costituzione italiana, o stiamo traghettando verso una filosofia d'intervento palesemente dirigistica e di stampo pubblicistico, verso un sistema che è stato, giustamente, definito di "bonapartismo economico" (Corrado Sforza Fogliani)? Sempre di più il rischio dell'autoreferenzialità, se non autoritarismo, dell'istituto vigilante, che si muove, tra l'altro, ormai come semplice esecutore di direttive tecnocratiche che provengono non, come si dice, dall'Europa, ma da centrali finanziarie internazionali e tecnocratiche, la cui cultura domina i nostri centri governativi in modo inquietante. E ciò è ancor più pericoloso perché viene a coincidere con un periodo di palese e comprovata caduta qualitativa della direzione dell'Istituto vigilante. La preoccupazione maggiore è rappresentata dal rischio che si diffonda la sensazione che, magari per ragioni astrattamente "buone", ma pur sempre politiche, come quella "dell'interesse pubblico", non ci sia più un "giudice a Berlino". Una sensazione di questo genere, già in parte infiltratasi nel tessuto sociale, è deleteria anche sotto il profilo dell'agire degli attori economici. E' quindi urgente che si ripristini la legittimità costituzionale, che il "bonapartismo economico" ceda il passo alla legalità ed al pensiero di giudici indipendenti.
E' stato detto che il d.l. 3/2015 si limita ai imporre la trasformazione in Spa delle maggiori banche popolari e, quindi, è un provvedimento limitato a queste e che non tocca le banche popolari come genere. Si tratta di una delle tante falsità con le quali si sono avvelenati i pozzi in questa inquietante vicenda. Il provvedimento in questione, ponendo il limite di otto miliardi di euro di attivo, oltre il quale una banca popolare deve trasformarsi in una SpA, e demolendo un pilastro del sistema come il voto capitario, necessariamente incide sulla natura e sull'operatività di tutte le banche popolari e del credito cooperativo in generale, ponendo un tetto al loro sviluppo.
E' stato anche detto che le banche popolari sono un'anomalia del sistema bancario italiano. Si tratta di una falsità così grossolana che ci si meraviglia che provenga da fonti che dovrebbero essere autorevoli. Essa può essere un'anomalia, anzi un fastidio solo per chi si identifica nella cultura piratesca delle grandi banche d'affari internazionali, che sono solo interessate alla contendibilità dei soggetti bancari. La verità è che è proprio questo limite, artificioso e privo di ogni fondamento tecnico che rappresenta un'anomalia mondiale. In tutto il mondo, in forme diverse, il credito cooperativo, dalla Germania alla Thailandia, dalla Francia a numerosi paesi dell'Africa, è diffuso e spesso fiorente. In nessun altro paese dell'Unione Europea e del mondo i governi hanno mai pensato di proibire la forma cooperativa a banche sopra gli otto miliardi di euro di attivo. Gli esempi di banche cooperative sopra quella soglia sono, invero, assai numerosi. In Europa operano banche cooperative, presenti sui mercati internazionali con attività che superano ampiamente non solo gli otto miliardi ma i 1000 miliardi. Basti pensare ai colossi francesi ed olandesi come Credit Agricole e Rabobank. I primi 50 gruppi cooperativi europei presentano tutti un attivo di gran lunga superiore agli otto miliardi di euro con una media di 154 miliardi (fonte Bankscope). E questa anomalia mondiale doveva verificarsi proprio nel Paese la cui Costituzione contiene il più lampante riconoscimento della funzione della cooperazione, come è l'art. 45! E' stato da tempo rilevato che il requisito della mutualità può riferirsi anche alla "mutualità esterna", attestata dalle clausole statutarie di tutte le Banche Popolari che indirizzano parte della loro attività a favore delle economie locali servite dalle banche "nell'ambito di un disegno di incentivazione che ha già in sé i caratteri della mutualità"(Studio n. 5617/ della Commissione Studi d'Impresa del Consiglio Nazionale del Notariato, 2005/31).Tale funzione sociale della mutualità esterna delle Banche Popolari si estrinseca nella loro opera a favore dello sviluppo dei territori in cui operano, delle PMI, delle famiglie. La relazione accompagnatoria al d.l. n. 6/ 2003 par.15 chiarisce: "la cooperativa a mutualità non prevalente resta una società mutualistica. Il reale valore dell'impresa mutualistica (appunto: la sua funzione sociale) va ricercata sul piano dei bisogni che la cooperativa soddisfa, su quella della categoria sociale al cui servizio la cooperativa si pone; ed infine anche su regole strutturali (voto capitario, porta aperta) estranee alle organizzazioni delle società ordinarie". Le Banche Popolari destinano mediamente il 5% dell'utile netto, con punte dell'8%, a finalità sociali (mutualità esterna). Rientra in questo quadro anche la particolare attenzione verso il Terzo settore. Dall'inizio della crisi del 2008 al dicembre 2014, l'impegno del Credito popolare nei confronti del Terzo settore, è aumentato con una crescita complessiva degli impegni del 30%, 7 punti percentuali in più del sistema bancario. Oggi, tre clienti su dieci, del Terzo settore hanno come referente creditizio una banca popolare.
Se, dunque, la Costituzione, con norma precettiva, prescrive la promozione e favorisce l'incremento della cooperazione in ragione della sua funzione sociale e ciò anche in campo bancario, essa non può consentire che si imponga un limite, sia esso riferito all'ambito delle attività nelle quali la cooperazione può operare o rapportato alla dimensione che l'azienda cooperativa può assumere. Tanto più quando tale limite sia totalmente privo di qualsivoglia fondamento o anche semplice spiegazione tecnica, e quando venga imposto per una sola categoria delle banche cooperative (non è infatti, per ora applicabile alle BCC) ed anzi per nessuna altra impresa cooperativa (si pensi alle grandi cooperative di consumo che svolgono, in parte, anche funzione di credito al consumo) .
Banche Popolari ed economia reale
Nel 2016 si festeggerà il 140° anniversario della fondazione dell'Associazione delle Banche Popolari. Dodici anni prima, nel 1864, era nata la prima banca popolare italiana, la Banca Agricola Popolare di Lodi[2], con il contributo di Tiziano Zalli e di Luigi Luzzati. Due anni prima Tiziano Zalli, già fondatore della Società Generale di Mutuo Soccorso degli Operai, di cui presidente onorario era Giuseppe Garibaldi, aveva proposto la creazione di una cassa "perché senza ricorrere all'usura privata sempre ruinosa o al Monte di Pietà, l'operaio onesto potesse ottenere credito per provvedere a' suoi bisogni domestici ed industriali sulla garanzia della sua onoratezza e del suo amore al lavoro". Il contributo che le Banche Popolari, proprio perché ispirato da queste finalità, hanno dato al Paese ed ai propri territori nel corso di 150 anni, è stato immenso e non può, in questa sede, neppure essere riassunto.
E' meglio concentrarsi sulla performance delle Banche Popolari (Pop) in confronto con le banche commerciali (Comm) e quelle di credito cooperativo (BCC), nel periodo della grande crisi del 2008. Per questo raffronto è preziosa la nota che riproduciamo integralmente di seguito, di Fulvio Coltorti, sulla base dei dati pubblicati il 1° dicembre 2015 dall'Area Studi Mediobanca (della quale lo stesso Coltorti è stato a lungo il direttore ed è ora presidente onorario):
14/12/2015
Nota sulle banche italiane con focus sulle popolari, stesa da Fulvio Coltorti, (già distribuita in forma integrale).
Questa nota è stata elaborata sulla base del focus pubblicato il 1° dicembre 2015 dall'Area Studi Mediobanca (v. sito www.mbres.it). E' opportuno considerare che Mediobanca rileva i dati delle principali aziende di credito (quelle con almeno 50 milioni di euro di attivo tangibile), escludendo quindi le minori che tuttavia non rilevano ai fini di questa nota. La copertura dell'insieme Mediobanca sul totale nazionale in termini di mezzi propri varia dal 93% per le banche commerciali (cosiddette con raccolta a breve che sono sommate alle banche di credito mobiliare, di investimento e di gestioni, tutte sotto forma di SpA), al 96% per le banche di credito cooperativo, al 99,5% per le banche popolari. Percentuali simili (dal 95% al 99%) valgono in termini di addetti e di sportelli. I dati riguardano il periodo dal 2005 al 2014; non necessariamente gli aggregati sono omogenei nei vari anni;ma sono sempre presenti le maggiori banche i cui dati determinano in larga misura le tendenze del totale. Per le banche popolari si dispone di un aggregato delle 33 maggiori (37 nel 2005) e di un sub-aggregato relativo alle prime 9. Dunque, i confronti vanno ritenuti significativi per la costante ampia rappresentatività degli insiemi rilevati).
L'obiettivo che mi sono posto è una valutazione delle performance delle banche popolari (Pop) in confronto alle banche commerciali (Com) e a quelle di credito cooperativo (Bcc). Se queste performance apparissero strutturalmente peggiori per le Pop allora la "riforma" sarebbe giustificata; in caso contrario si danneggerebbe senza motivo l'interesse del Paese con particolare riguardo ai clienti delle banche (che nel caso delle Pop comprendono una maggiore quota di piccole e medie imprese)e ai numerosi soci sui quali l'obbligo di trasformazione in SpA mi appare comunque un sopruso lesivo della libertà di intrapresa e quindi di concorrenza.
Veniamo ai dati. Il primo aspetto da esaminare riguarda i risultati d'esercizio che hanno subìto nel periodo esaminato pesanti deterioramenti. Nel 2005 tutte le categorie presentavano nell'aggregato conti economici in utile; nel 2014, escluse le banche di credito cooperativo (i cui volumi sono assai contenuti), questi utili si sono trasformati in forti perdite. Gli sbilanci più consistenti riguardano l'aggregato delle popolari (perdite pari al 39,1% dei ricavi) e quello - il più voluminoso - delle banche commerciali. Le Bcc sono quelle ad aver segnato il peggioramento più contenuto: 20,4 punti contro i 50,4 punti delle popolari (53,7 punti per le 9 principali). I peggioramenti risultano in un ordine di grandezza compreso tra 20 e 50 punti circa:
2005
2014
Variaz.
Risultato netto in % del totale ricavi
9 maggiori pop
22,2
-31,5
-53,7
Totale pop
11,3
-39,1
-50,4
Totale com
23,8
-13,0
-36,8
Totale bcc
26,8
6,4
-20,4
Fonte: elaborazioni su dati del Focus Mediobanca. Vale questa stessa fonte per le tabelle successive. Il totale ricavi rappresenta la somma del margine di interesse, del saldo commissioni attive e passive, dei dividendi e altri proventi tipici dell'attività bancaria.
Il deterioramento dei risultati economici ha avuto origine dalle perdite su crediti. Queste sono ovviamente dovute alla congiuntura negativa del periodo che ha messo in crisi i mercati di sbocco dei prodotti delle imprese clienti delle banche, con particolare riguardo al mercato interno sacrificato dalle politiche di austerità. Le perdite sui crediti in rapporto ai ricavi hanno segnato valori medi simili (36-37%) per l'insieme delle banche popolari e commerciali; qui esse hanno assorbito nel quinquennio 2010-14 una quota di ricavi pari mediamente al 36,5%, ovvero 25,6 punti in più rispetto al quinquennio 2005-09. Per le banche popolari il peggioramento è stato leggermente inferiore (23,7 punti), e ancor meno per le 9 maggiori di esse (quelle destinate alla trasformazione in s.p.a.) il cui indice è salito solo di 21,9 punti (3,8 punti in meno rispetto alle banche commerciali che comprendono gli istituti più grandi del Paese). Fermo il fatto che si tratta di percentuali che non si differenziano tra loro per valori troppo elevati, esse non consentono di affermare che le banche popolari (in particolare le maggiori) siano meno capacidi valutare il merito di credito dei loro clienti:
2005-09
2010-14
Variaz.
Perdite medie annue su crediti in % dei ricavi
9 maggiori pop
12,2
34,0
+21,8
Totale pop
13,1
36,8
+23,7
Totale com
10,9
36,5
+25,6
Totale bcc
7,9
31,1
+23,2
Quanto detto trova una conferma nell'analisi dei crediti verso la clientela. Distinguendo quelli in bonis da quelli deteriorati (inclusivi questi ultimi di sofferenze, incagli e altri) si hanno i seguenti dati:
2005
2014
Variaz.
2005
2014
Variaz.
Crediti in bonis
Crediti deteriorati
Mrd€ a fine anno
Totale pop
231,0
325,8
+94,8
8,7
52,2
+43,5
Totale com
1.108,9
1.042,3
-66,6
46,4
122,3
+75,9
Totale bcc
75,4
105,4
+30,0
3,9
14,9
+11,0
I dettagli per le 9 maggiori popolari non disponibili.
Le banche commerciali hanno variato di poco gli impieghi (+9,3 miliardi di euro), ma tale lieve variazione rappresenta il saldo tra 75,9 miliardi di euro in più di crediti deteriorati e 66,6 miliardi di euro in meno di crediti in bonis(quindi, il credito è stato espanso ai clienti cattivi e razionato a quelli buoni). Le popolari hanno invece erogato ai clienti 138,3 miliardi di euro in più, per i due terzi relativi a clientela in bonis. Inutile ricordare che ciò ha significato non razionare il credito a clienti costituiti in buona misura da piccole e medie imprese in momenti di congiuntura difficile; azione che si è tradotta in un maggior sostegno alle imprese produttive: a fine 2014 la quota di attivo tangibile costituita da crediti verso clienti rappresentava per le popolari il 59,4% (4,6 punti in più rispetto al 2005) contro il 57% per le banche commerciali (2,1 punti in più sul 2005). Anche per questo, a fine 2014, le popolari registravano uno stock di esposizioni deteriorate relativamente più elevato: 13,8% del totale crediti v/ clienti, ovvero 10,2punti in più rispetto al 2005, contro i 6,5 punti in più delle banche commerciali.
2005
2014
Variaz.
2005
2014
Variaz.
Crediti v/clienti su totale attivo tangibile
Crediti deteriorati su totale crediti v/ clienti
%
%
Totale pop
54,8
59,4
+4,6
3,6
13,8
+10,2
Totale com
54,9
57,0
+2,1
4,0
10,5
+6,5
Totale bcc
67,6
58,9
-8,7
4,9
12,4
+7,5
A fronte di ciò, in chiusura dell'esercizio 2014 la consistenza dei mezzi propri delle popolari non era significativamente diversa da quella delle banche commerciali, grazie al buon livello già in essere all'inizio del periodo:
2005
2014
Variaz.
Capitale netto in % del totale attivo tangibile
Totale pop
11,0
8,6
-2,4
Totale com
9,1
8,9
-0,2
Totale bcc
11,6
9,3
-2,3
In conclusione, valutando gli aggregati delle banche censite da Mediobanca, a me pare che i dati consuntivi del periodo 2005-2014 mettano in evidenza per le principali banche popolari una dinamica gestionale relativamente più virtuosa (o meno viziosa) rispetto a quella delle altre categorie sia per quanto attiene agli aspetti aziendali sia per quanto riguarda l'interesse del Paese. Questo deve infatti portare a preferire in generale operatori anticiclici; nel comparto del credito ciò significa istituti che assicurino il soddisfacimento della domanda di finanziamento espressa dal sistema delle imprese e, in particolare, da quelle di piccola e media dimensione che rappresentano notoriamente il nostro vantaggio competitivo.
Altri dati che confermano le conclusioni di Fulvio Coltorti sono i seguenti.
Dal 2008, le Banche Popolari:
- hanno guadagnato quote di mercato per quanto riguarda il credito erogato all'economia reale, passando dal 22 al 25,5%;
- hanno visto crescere significativamente il numero dei soci, saliti da 1.150.000 a 1.330.000;
- hanno visto crescere il numero di clienti arrivati a 12,3 milioni di unità, un milione e mezzo in più;
- hanno, come già ricordato, aumentato il loro credito verso il Terzo settore, per 7 punti in più del sistema bancario nel suo insieme.
Attacco al credito cooperativo
Ma bisogna continuare a battersi, perché, nella azione del Governo e della Banca d'Italia, alla violazione plateale di norme costituzionali si aggiunge una concezione distorta e pericolosa del sistema creditizio. E questi sono due temi troppo importanti per venire archiviati con leggerezza. Infatti, il "discostarsi in partenza anche di poco dalla verità si moltiplica all'infinito via via che si procede" (Aristotele, Trattato sul Cielo). E il provvedimento in questione è basato su due colossali non verità.
La prima è la convinzione che, in materia bancaria, contano solo le grandi dimensioni e la seconda è che solo il patrimonio è baluardo di stabilità.
E' certo vero che soprattutto in alcune delle banche coinvolte, erano necessarie importanti correzioni di rotta e un ridisegno della "governance". Ma, in questi casi, un legislatore saggio, stimola una vera riforma dell'istituto e non promuove un'aggressione incostituzionale e basata su argomenti privi di verità. E un organo di vigilanza responsabile fa la stessa cosa con un uso accorto dei suoi enormi poteri, anche senza una legge ad hoc.
La verità è quella che scrive Becchetti: "Non nascondiamoci dietro un dito. La riforma delle popolari (e l'idea di voler abolire il voto capitario prima in toto ora solo per le banche sopra gli 8 miliardi di attivo, limitando peraltro il diritto dei soci di dissentire da questa scelta con il recesso) interviene in modo brutale su uno dei punti più delicati del rapporto tra economia e democrazia". La verità è quella che ha detto Prodi nel corso di un recente incontro al Centro Studi della CISL: le banche popolari "sono un esperimento interessante, unico, che ora si vuole chiudere in un attimo", perché "da noi sono considerate una deviazione dalle regole del sistema". Questo è il punto centrale: sono considerate una deviazione dal sistema. Ma da quale sistema? Da quello delle grandi banche che ci ha portato sparati alla catastrofe finanziaria del 2008 e che sta, alacremente, lavorando per la prossima catastrofe ?
L'inconsistenza e la falsità degli argomenti avanzati per giustificare il provvedimento, sono rese evidenti da un'analisi seria, come quella contenuta nell'appello sottoscritto da 156 economisti di valore, provenienti da un numero impressionante di Università da tutta Italia. E' proprio l'infondatezza della maggior parte degli argomenti adottati a sostegno del provvedimento che preoccupa molto più del provvedimento stesso. Eppure quest'analisi seria non è stata ritenuta neppure degna di discussione, se non altro per confutarla. Ma che paese siamo diventati se procediamo a colpi di voti di fiducia, senza accettare un serio dibattito, anche su argomenti di questa importanza sistemica e di questa complessità? Ma possiamo ancora chiamare Parlamento una cosa che avalla qualunque progetto venga dal Governo, senza nessuna seria discussione? E la Banca d'Italia, con la quale, una volta, si poteva discutere e dissentire ma sempre su un livello di serietà professionale e scientifica, come mai è, sostanzialmente, ridotta a fare acritico megafono del pensiero dominante, mostrando una sempre più scarsa conoscenza e rispetto del sistema italiano e delle sue peculiarità? Forse perché nel suo gruppo dirigente non ci sono più veri banchieri o perché siamo ormai al limite oltre il quale diventeremo, senza speranza, paese coloniale? Come può il direttore generale della stessa affermare: "La stella polare è la forza patrimoniale delle banche". (Lectio magistralis al Collegio Borromeo di Pavia, marzo 2015), come se questo fosse l'unico vero criterio. Forse perché lo dicono gli americani che rifiutandosi di affrontare il nodo cruciale, questo veramente cruciale, delle dimensioni troppo grandi, della banche "too big to fail", hanno ripiegato sul capitale sempre più elevato come difesa contro i disastri. Ma non c'è capitale sufficientemente alto per evitare gli effetti della "mala gestio".
Da dove vengono queste fondamentalmente erronee credenze? Forse che il MPS, per fare un solo esempio, non aveva accumulato un patrimonio sufficientemente grande nei suoi 600 anni di storia senza distribuzione di dividendi, prima che questo patrimonio, una volta diventata SpA, venisse, in breve tempo, dilapidato da una dirigenza disastrosa, operante indisturbata dagli organismi di vigilanza e secondo una strategia basata su quelle fusioni e acquisizioni così amate e raccomandate in alto luogo? Allora aveva torto Tovini, fondatore di banche sane, quando diceva che la solidità di una banca non è determinata dal patrimonio ma dall'onestà dei gestori e da corretti ed equilibrati rapporti tra le varie forme di attività e di passività?
E cosa intende il commentatore del Financial Times, Wolf, quando scrive: "Un'impresa bancaria troppo grande per essere lasciata fallire, non può essere gestita sulla base degli interessi degli azionisti, perché non fa più parte del mercato. O è possibile chiuderla oppure va gestita in un altro modo. E' semplicemente e brutalmente così" (Il Sole 24 Ore, 25 Giugno 2009).
E il confiteor di Greenspan, uno dei maggiori responsabili del disastro del 2008, a chi è diretto, quando, nel 2013, scrive: "Le grandi banche sono entità sempre più complesse che generano un potenziale di rischi sistemici ben più ampio del passato…. Le ricerche condotte dal Federal Reserve non hanno riscontrato economie di scala nelle banche, di là da quelle di modeste dimensioni. Non vedo alternative: bisogna costringere le banche a dimagrire al di sotto di una soglia tale che, se falliscono, cesseranno di costituire una minaccia per la stabilità della finanza dell'America".
Sono tutte vecchie credenze che dobbiamo archiviare, come il voto capitario? O sono solo cose giuste che vogliamo cancellare nonostante l'impressionante conferma empirica ricevuta dal 2008? E perché vogliamo cancellarle? Perché sono estranee al sistema, esattamente come il credito cooperativo, come il voto capitario. Ma questo pensiero dominante non è esattamente lo stesso che ci ha portato diritti al disastro finanziario del 2008? O, come molti membri del pensiero dominante hanno scritto, questo è stato solo un piccolo incidente di percorso che non cambia la direzione di fondo? Le banche devono diventare sempre più grandi, sempre più omogenee, sempre più burocratiche, sempre più rigide, sempre più patrimonializzate, sempre più anonime e staccate dal territorio e da simili sentimentalismi, senza anima, identità e cultura? L'unica cosa che conta è che siano ben patrimonializzate ma, soprattutto, contendibili, per la gioia dei raider mondiali. E basta provincialismi, come fa la Merkel con le sue Landesbank!
La verità è che il pensiero dominante, del quale i nostri sono ormai semplici megafoni, viene da molto lontano. Viene dall'America a cavallo tra il XIX e XX secolo, il periodo del formarsi dei grandi trust, delle grandi banche d'affari, dell'accumulo dei grandi patrimoni e della concentrazione dei redditi. Per conoscere questo periodo e le forti analogie con i nostri anni siamo oggi favoriti da un libro appena uscito in Italia: Louis D. Brandeis, "I soldi degli altri e come i banchieri li usano", (Edizioni di storia e letteratura, 2014). Louis D. Brandeis è stato un eminente giurista ed economista americano della prima metà del '900. Ha assistito al formarsi delle grandi concentrazioni di potere finanziario, alla nascita dei grandi trust dell'acciaio, del petrolio, delle ferrovie, all'emergere delle grandi banche favorite dall'unione tra le attività di banca commerciale o di deposito e le attività di banche d'affari (la loro forza era basata appunto sulla possibilità di usare i soldi degli altri, dei depositanti, per i propri investimenti e affari). Si è battuto per l'intera vita contro la concentrazione del potere finanziario, come coautore della legislazione antitrust, come pubblicista battagliero (il libro racchiude i suoi articoli di battaglia dei primi anni del '900), come stretto collaboratore di Wilson nella campagna per la presidenza (vinta da Wilson) nel 1912. E' interessante osservare che l'unico antidoto che Brandeis vede possibile per opporsi allo strapotere dei grandi conglomerati finanziari è proprio il modello europeo del credito cooperativo e l'unico italiano citato nel libro è Luzzati, alfiere dello stesso. Dal 1915 al 1939 è stato giudice della Corte Suprema degli USA, da dove ha continuato le sue inesauribili battaglie contro i monopoli e le concentrazioni economiche e finanziarie, per la riforma del sistema bancario e la tutela dei diritti civili e del lavoro. Nel 1933, con Roosevelt vedrà realizzarsi il suo sogno della separazione, con il Glass-Steagall-Act, delle banche commerciali (accettare depositi e fare prestiti) e le banche d'affari (fare emissioni e negoziazioni di titoli). Nel frattempo però l'oligarchia finanziaria, e soprattutto la Morgan, usando e abusando dei "soldi degli altri" aveva guadagnato cifre colossali e acquisito un potere, anche, politico, enorme, che continua anche oggi.
L'inquietante interesse del libro è che scopriamo che oggi, dopo lo svuotamento di fatto della legislazione antitrust, l'abrogazione, sotto la presidenza Clinton, del Glass-Steagall-Act, e il ritorno all'unione tra banche commerciali e di deposito e banche d'affari, la conseguente ripartenza virulenta della concentrazione di ricchezza economica e finanziaria, il proliferare di strumenti finanziari fuori da ogni controllo ("shadow banking system"), siamo più o meno ritornati all'inizio del '900. Come scrive nell'eccellente introduzione Lapo Berti: " La sconcertante conclusione che possiamo trarre noi oggi dal libro a cento anni esatti dalla sua prima pubblicazione e nel pieno di una crisi iniziata proprio con le banche e poi dilagata all'economia intera è che i fenomeni che analizza e discute sono gli stessi nostri, nonché, per chi voglia vederle, buona parte delle soluzioni che offre".
Tutto quello che si oppone a questo insensato e pericolosissimo gigantismo va schiantato. Il credito cooperativo e di territorio è estraneo a questo sistema e, per questo, va cancellato. Questa è l'unica verosimile motivazione del provvedimento in esame.
Quando scoppiò la crisi finanziaria del 2008, per qualche tempo ci si è interrogati seriamente sulle cause della crisi e tra esse un grande peso fu assegnato al gigantismo bancario. I principali contributi sono analizzati nei paragrafi: la degenerazione del supercapitalismo; la degenerazione del gigantismo bancario; la tragedia del "too big to fail"; le criticità secondo il rapporto del Working Paper Ferguson, del libro di Marco Vitale, "Passaggio al Futuro, Oltre la crisi attraverso la crisi" (2010). E' impressionante rileggere queste pagine, scritte nell'estate 2009. Furono molte le voci che, allora, sostennero che la soluzione consisteva nel frenare e smontare il gigantismo bancario. In questo senso per citare solo una persona che era parte del sistema è possibile citare l'allora direttore della Banca dei Regolamenti Internazionali che si dichiarò apertamente nella direzione di smontare i gruppi bancari troppo grandi. Ma anche la Banca Centrale Svizzera pubblicò un rapporto sui pericoli del gigantismo bancario e il suo vice-presidente Philipp Hildebrand si dichiarò apertamente per la riduzione dimensionale delle banche troppo grosse "senza remore e senza tabù". Tra i maggiori studiosi si può ricordare William Sharpe che dichiarò: "C'è una seria discussione da affrontare sulle istituzioni troppo grandi non solo per lasciarle fallire ma anche per poterle regolare… Sicuramente certi gruppi erano diventati troppo grandi per poter funzionare non solo per poter fallire". Ma già nell'estate 2009 era possibile scrivere, che " l'intervento pubblico ha salvato, senza condizioni, il sistema bancario internazionale e la strategia del "too big to fail" ha stravinto" (Marco Vitale) o come scrisse Bob Monks: "Solo gli storici saranno in grado di appurare se un Dipartimento del Tesoro, dal personale quasi interamente di formazione Goldman-Sachs, "segnalò" in qualche modo a un gruppo di pochi eletti che il gioco - prestiti 33:1, assicurati da asset incomprensibili - poteva continuare, contando sul fatto che ci sarebbe stato un estremo salvataggio federale sotto forma di ristrutturazione del debito, garanzia o liquidità". Già, nel 2001, il Working Party presieduto da Roger W. Ferguson, vice presidente del Board of Governors del Federal Reserve System, ai quali parteciparono gli esperti di governo e banche centrali di molti paesi, aveva illustrato le sei aree dove si concentravano le maggiori criticità del processo di concentrazione bancaria, da poco avviato, nei seguenti termini:
· Costi e ricavi
I conclamati obiettivi del processo di consolidamento di riduzione dei costi e incremento dei ricavi, pur essendo in parte realizzati, restavano molto lontani dalle attese.
· La concentrazione e vantaggi della piccola dimensione
Le ricerche empiriche dimostrano che le sbandierate economie di scala sono, in gran parte, illusorie. Solo nelle banche minori si verificano economie di scala, attraverso un ampliamento od una focalizzazione della loro dimensione (economie di scala e di scopo). In questo processo, fusioni ed acquisizioni sono caratterizzate da un trasferimento di ricchezza dagli azionisti della banca acquirente a quelli della banca acquisita. Nello stesso tempo, la banca acquirente deve far fronte ad un percorso di complessità organizzativa che incide negativamente sui risultati (diseconomia di scala).
· Il management del rischio
Le strategie di consolidamento hanno reso cruciale il problema del controllo del rischio, anche perché un effetto delle maggiori dimensioni è che aumenta il "moral hazard". Il problema coinvolge un profondo cambiamento dei modi di esercitare la "governance". Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale che si rende necessaria: è come se si andasse verso un tipo di "governance " centrata sulla trasversalità e sull'innovazione.
· Il peso degli azionisti nei confronti degli altri "Stakeholder"
La compressione dei margini di profitto ha determinato una progressiva pressione degli azionisti sul management per il miglioramento di risultati di gestione, anche a scapito degli altri "Stakeholders".
· Il processo di concentrazione nei confronti con il territorio
Studi sugli effetti delle concentrazioni bancarie sui prestiti alle piccole imprese erano allora disponibili solo per due Paesi (Italia e USA). Le conclusioni di questi studi empirici erano chiare: dopo la fusione o l'acquisizione, le banche riducono la percentuale di portafoglio investita in prestiti alle imprese di minore dimensione. Si tratta di una specie di allentamento del rapporto con il tessuto economico locale.
· Cultura e integrazione
Tra i fattori che rendono difficile il processo di consolidamento, un ruolo importante è rivestito dalle differenze culturali non accompagnate, per lo più, da un'efficace strategia d'integrazione. Occorre una nuova cultura manageriale che sappia governare il processo.
Questo studio di grandissimo interesse, sul quale sarebbe stato utile un ampio dibattito che avrebbe aiutato a prevenire tante involuzioni e tanti pericoli, è stato, sostanzialmente, ignorato. Non era di moda!
La moda era ritornata prepotentemente quella delle grosse dimensioni. Punto e a capo! Ogni tesi sul ridimensionamento delle banche troppo grandi fu archiviata sotto la pressione degli istituti interessati. Prevalse, invece, la tesi del capitale e del patrimonio elevato. Ogni banca poteva fare quello che voleva, poteva crescere sino al cielo, purché avesse un capitale sempre più alto. Ecco da dove viene la stravagante tesi dell'attuale direttore generale della Banca d'Italia che sostiene che la stella polare è il livello del patrimonio e non il fare buona banca, ed essere utili ai clienti, come insegnava il sorpassato Luigi Einaudi.
Ma la discussione non è finita, non può finire. Mentre i nostri continuano a inseguire il mito delle grandi dimensioni (come se il rapporto Ferguson non fosse mai stato scritto, come se la catastrofe finanziaria delle grandi banche del 2008 non ci fosse stata, come se l'enorme dibattito scatenato dalla stessa fosse stato uno scherzo, come se non fosse stata proprio la mania delle grandi dimensioni, delle acquisizioni e delle SpA, stimolata dalla Banca d'Italia di Antonio Fazio, del quale gli attuali vertici sono tardivi e peggiori epigoni, a massacrare banche popolari splendide, utilissime al loro territorio e splendidamente dirette, come l'Agricola Mantovana, ai tempi del direttore Melani, o come la Banca Popolare di Lodi, ai tempi del direttore Mazza).
Il dibattito su altri tavoli continua. Se è vero che l'Economist del 7-13 marzo 2015, pag. 10, sotto il titolo "Global banks/Cocking up all over the world, ha scritto: "E' difficile evitare la conclusione che le banche globali sono, secondo gli standard delle imprese normali, conglomerati inefficienti che stentano a usare bene le loro risorse. I loro capi devono ora sforzarsi di creare imprese più snelle utili al commercio globale a costi e rischi più bassi, Se i loro clienti troveranno i loro servizi utili, esse saranno capaci di ricuperare i loro giganteschi costi generali e assicurare ai loro azionisti un ritorno decente. Altrimenti esse meritano di diventare nulla più che un nuovo fallimento della finanza"[3]. Oltre tutto la rincorsa alle grandi dimensioni e a cercare la quadratura del cerchio nel patrimonio elevato è, in tutti i campi, compreso quello bancario, un approccio suicida per il nostro paese. Noi siamo quello che siamo. Un'economia di medie e piccole imprese, con le grandi imprese o distrutte (Olivetti) o emigrate (Fiat) o vendute (Pirelli), con un ordinamento che stimola le medie imprese a non crescere[4], con un mercato dei capitali asfittico (anche ora che nel mondo c'è una liquidità mai vista), con una classe imprenditoriale brava a fare ma non a governare, con un familismo impressionante, con una dipendenza dall'intermediazione bancaria enorme, con delle condizioni del credito bancario che presentano livelli di diversità inaccettabili a seconda delle dimensioni delle imprese e soprattutto della loro collocazione territoriale, con un livello di occupazione molto basso, con differenze territoriali di sviluppo generale drammatiche. Per questo la pretesa di cercare di applicare da noi impostazioni, approcci e livelli patrimoniali, dettati da paesi da noi molto diversi, in funzione dei loro interessi specifici, può essere assai dannosa. Un barlume di comprensione di ciò appare anche nel Vice Direttore Generale della Banca d'Italia, Fabio Panetta, che, in una buona relazione tenuta a Perugia il 21 marzo 2015, dal titolo: "La transizione verso un sistema finanziario più stabile", ha detto: "Il ritorno alla crescita, l'abbassamento degli oneri per interessi contribuiranno a risollevare la redditività delle imprese e migliorare la qualità del credito. Gli intermediari dovranno accompagnare la ripresa della domanda di prestiti mantenendo un fermo controllo dei rischi, in particolare quelli creditizi. In questa fase un ulteriore inasprimento dei requisiti di capitale e di liquidità per le banche rischierebbe di frenare l'offerta di credito, allontanando la ripresa economica. Aumenterebbero in questo, insieme a quelli macroeconomici, i rischi del sistema finanziario, con un esito opposto a quello desiderato".
Noi siamo condannati a fare di più con meno, in tutti i campi. Se ci mettiamo sulla strada delle grandi dimensioni e del grande capitale siamo, per definizione, perdenti e avviati ad un destino inevitabile di paese coloniale, via nella quale ci siamo già molto inoltrati nel campo industriale. Noi dobbiamo concentrarci sulle cose che sappiamo fare e sulle dimensioni che riusciamo a dominare e non scimmiottare gli altri, o farci imporre da altri soluzioni a noi dannose.
Dunque se è vero quello che documenta l'allegato appello dei 159 economisti e quello sin qui detto, che cosa resta in piedi delle motivazioni addotte per il provvedimento sulle popolari e per la sua presunta urgenza?
Forse, ma solo forse, una maggiore facilità di accesso al mercato dei capitali. Ma dico forse, perché ogni volta che una banca popolare ha avuto bisogno di capitale non ha mai avuto difficoltà a trovarlo sul mercato sia dai propri soci che da quegli investitori istituzionali internazionali che hanno un'impostazione a lungo termine, interessati al rendimento e poco interessati al diritto di voto (tanto è vero che quando sono soci in società industriali quotate dove hanno tale diritto, di solito non lo esercitano, astenendosi). Ciò non vale per quell'altra categoria d'investitori istituzionali interessati solo a speculazioni a breve termine su titoli, attività certamente utile e legittima, ma che non rappresenta il massimo desiderabile come investitori nelle nostre popolari sia che queste conservino la struttura a voto capitario sia che assumano la veste di SpA, anche se sono proprio questi che spingono e, con causa, perché la trasformazione avvenga. Ma questo punto merita ulteriori approfondimenti in un paragrafo successivo.
Se dunque anche il maggior accesso al mercato dei capitali è, in gran parte, una favola metropolitana, che cosa resta veramente? La contendibilità. E la contendibilità, unita alla forma SpA, dovrebbe essere lo strumento che, secondo dichiarazioni stravaganti e attribuite dalla stampa a esponenti di Banca d'Italia, assicurerebbe la buona salute alle ex banche popolari, com'è già successo, ad esempio, alle SpA MPS e Carige[5]. Ma siamo sicuri che la contendibilità è sempre e comunque un bene, che tutto debba essere attaccabile, instabile, precario, che la stabilità non sia anch'essa un valore soprattutto in un mondo come il nostro dove "mentre siamo ampiamente convinti di vivere in un mondo liberale, il capitalismo che ci governa ha ben poco a vedere con i principi del liberalismo"[6]
Einaudi e Roepke s'interrogano a fondo su questo tema e il risultato è un saggio straordinario di Einaudi dal titolo "Economia di concorrenza e capitalismo storico" che prende le mosse da un'analisi del libro di Roepke "Die Gesellschaftscrisis der Gegenwart" (La crisi sociale del presente, 1942). Scrive Roepke: "Il mercato, la direzione del lavoro, la commercializzazione, la concorrenza, la razionalità economica, hanno in comune come ogni altra istituzione umana un ottimo per la loro attuazione, a partire dal quale i danni cominciano a sopravanzare sempre più i vantaggi" L'attuazione senza limiti e senza distinzione dell'economia di concorrenza dà alle relazioni umane un tal grado di tensione, a cui la natura umana non resiste a lungo. Esistono limiti per il capitalismo che debbono essere osservati se non si vogliono porre agli uomini esigenze spirituali alle quali essi non giungono, sì che rispondono alla fine con la rivolta".
E questa visione corrisponde al saggio equilibrio della nostra Costituzione.
Einaudi commenta:
"Non tutti gli uomini tuttavia hanno l'anima del soldato o del capitano disposti ad ubbidire od a lottare ogni giorno quant'è lunga la vita. Molti, moltissimi, forse tutti in un certo momento della vita o in dati momenti di ogni giorno della vita sentono il bisogno di riposo, di difesa, di rifugio. Vogliono avere un'oasi dove riposare, vogliono sentirsi per un momento difesi da una trincea contro l'assillo continuo della concorrenza, della emulazione, della gara. Le oasi si chiamano famiglia, amici, vicini, compaesani, concittadini, connazionali, correligionari, posto sicuro contro il licenziamento, ufficio professionale avviato, con clienti affezionati, negozio ben conosciuto con tradizioni affidanti, marchio di fabbrica famoso, cattedra assegnata fino alla vecchiaia, casa di reddito od appartamento proprio, podere fruttifero di derrate o frutta, titoli d'impiego da buon padre di famiglia, associazione di mutuo soccorso o di difesa professionale con i compagni di lavoro o di mestiere o di professione, legislazione tutrice contro la concorrenza sleale. L'economia di concorrenza vive e dura, data l'indole umana, solo se essa non è universale; solo se gli uomini possono, per ampia parte della loro attività, trovare un rifugio, una trincea contro la necessità continua della lotta emulativa, in che consiste la concorrenza. Il paradosso della concorrenza sta in ciò che essa non sopravvive alla sua esclusiva dominazione…. Di qui un principio posto dal Roepke con energia singolare: la sostanza vera dell'economia di concorrenza, al pari di quella del liberalismo politico, non sta nella concorrenza, ma nei limiti nei vincoli posti alla concorrenza".
Noi non riusciamo a credere che sia vera la dichiarazione attribuita dalla stampa al direttore generale della Banca d'Italia, Salvatore Rossi: " Solo le SpA assicurano un futuro". Forse però è meglio continuare a basarci su Luigi Einaudi e Wilhelm Roepke, ancorché superati.
Sul concetto di banche di territorio, a margine del d.l. 3/2015 sulle banche popolari[7]
1. Per una definizione di "banca di territorio".
Il fattore di successo che viene più frequentemente citato a supporto delle banche cooperative è il loro essere banca di territorio.
Una definizione di banca di territorio è complessa come la stessa memoria della Banca d'Italia dimostra.
Una definizione della banca di territorio in termini puramente quantitativi - basata sull'incidenza degli impieghi della banca sull'area o aree di operatività - appare riduttiva, e non consente di cogliere che la ragione del radicamento (e, quando accade, del successo) della banca di territorio, sta nella cultura imprenditoriale da cui la banca è stata generata.
Le banche di territorio italiane (siano esse banche popolari o casse rurali) ma vi sono anche banche di territorio tra le banche private ordinarie), si sviluppano infatti sulla scorta di un modo peculiare di fare credito, che richiede, per essere implementato, un legame più stabile e meno anonimo tra chi presta risorse e chi le prende a prestito.
E' naturale - e anche storicamente documentato - che questa cultura maturi e prenda forma in istituti di credito che operano su dimensioni territoriali circoscritte: la prossimità fisica favorisce la conoscenza reciproca e la condivisione di patrimoni valoriali, ma soprattutto consente il funzionamento dei processi di controllo sociale che sono alla base del superamento delle asimmetrie informative.
Tuttavia, va sottolineato che l'operare del modello imprenditoriale in questione - se è favorito dalla limitatezza dell'area di competenza dell'intermediario - non trova, di necessità, nell'ampliamento della operatività (né sul piano della consistenza delle masse, né su quello del territorio) un vincolo ineluttabile alla propria replicabilità. Vi sono banche di territorio che operano come tali su una molteplicità di territori.
Lo stile della banca di territorio, infatti, si basa sul decentramento e sulla localizzazione del processo decisionale, e dunque si sostanzia in una maggiore autonomia e dei responsabili di filiale e di area territoriale, che non sono avvertiti come terminali di decisioni strategiche assunte dal vertice, ma sono deputati a declinare in un contesto specifico la vocazione localistica della banca. Il modello, come si vede, si fonda sulla piccola scala dimensionale ma può essere replicato più volte quando la banca vive una fase di crescita dimensionale.
Che questo "stile di direzione" sia ben più che una semplice dichiarazione di intenti e che abbia anzi costituito il valore aggiunto di queste forme di intermediazione del credito è documentato dai non pochi sforzi profusi dai gruppi bancari maggiori per far propria (o, dovremmo dir meglio, imitare) questa caratteristica delle banche di territorio: è difficile dimenticare le diverse campagne pubblicitarie con cui banche di grandi dimensioni hanno cercato di accreditarsi come "banche di territorio" o "di prossimità". Gli esiti non incoraggianti di questi tentativi di accreditamento mostrano che la prossimità non è figlia di un modello organizzativo, ma piuttosto di una specifica storia imprenditoriale (e dunque non è imitabile, né acquisibile per incorporazione).
Grazie a questa "risorsa culturale" le banche di territorio sono diventate gli interlocutori privilegiati delle famiglie e delle PMI, concentrandosi sulla concessione di credito e meno sugli investimenti finanziari rispetto a quanto si riscontra nei gruppi bancari di dimensione maggiore e di profilo concentrato solo ed esclusivamente sul profitto.
E va rimarcato come le PMI attribuiscano alla relazione di lunga durata stabilita con le banche di territorio un valore cui non sono disposte a rinunciare facilmente: è l'indagine Istat sull'accesso al credito per le PMI a rilevare che le motivazioni che spingono le PMI a selezionare la banca prevalente risiedono per oltre l'80% dei casi nel rapporto di clientela già consolidato con essa: un valore decisamente superiore a quello di chi considera elemento dirimente solo le condizioni sul tasso di interesse[8].
Gli effetti della crisi sulla performance delle PMI e i conseguenti riflessi sugli attivi dei bilanci delle maggiori banche popolari confermano, sebbene in modo paradossale, questa strategia: se è vero infatti che - in assenza di buone opportunità di impiego - la quota di attività finanziarie detenute ha superato la soglia del 20%, raddoppiando i valori pre-crisi[9], queste banche sono riuscite ad accrescere l'incidenza degli impieghi verso clienti, portandola dal 55% degli anni precedenti la crisi ad un 60% corrente; un valore, questo, molto simile a quello della media delle banche commerciali, che servono una clientela ben più diversificata sul piano dimensionale (Mediobanca - R&S 2015).
Se dunque alcune di queste banche hanno registrato difficoltà in corrispondenza degli anni di crisi economica, ciò si deve prevalentemente al loro coinvolgimento con il tessuto produttivo dei territori in cui sono operative piuttosto che ad azzardate manovre speculative di natura esclusivamente finanziaria.
Come questo possa essere considerato solo un sintomo di maggiore vulnerabilità e non piuttosto come l'adempimento ad un compito di sostegno alle imprese piccole e medie, che continuano a costituire un elemento trainante dell'economia nazionale[10], è questione difficile da comprendere.
2. Il vincolo dimensionale
Curiosamente, il d.l. 3/2015 definisce la soglia al di sopra della quale le banche popolari sono chiamate a cambiare veste sociale senza prendere in considerazione la dimensione territoriale: il criterio prescelto, come è noto, è quello della consistenza dell'attivo patrimoniale, nella convinzione che esso costituisca "un indicatore in grado di ricomprendere la complessità dell'intermediario e la sua rilevanza per la stabilità del sistema finanziario" (Rossi 2015).
La scelta del regolatore può trovare diverse giustificazioni:
a) il regolatore suppone una relazione semplice, di proporzionalità, tra la diffusione territoriale e la consistenza dell'attivo. La relativa eterogeneità - dal punto di vista della diffusione territoriale - delle banche interessate dal decreto non sembra tuttavia autorizzare l'assunto;
b) il regolatore trascura deliberatamente la caratteristica di banca del territorio, ed ha come obiettivo la trasformazione in società di capitali di tutte le banche con un attivo superiore ad una soglia critica;
Quest'ultima interpretazione costituirebbe dunque la chiave di lettura del decreto medesimo: si ritiene che una banca cooperativa con un attivo superiore alla soglia critica non sia compatibile con la "stabilità del sistema finanziario", in forza, soprattutto, delle peculiarità connesse al suo modello di governance. La ragione sembra essere la difficoltà che una banca cooperativa con attivi rilevanti potrebbe incontrare nell'accesso rapido al capitale di rischio, a fronte di urgenti necessità di (ri)capitalizzazione.
Pur avendo già sollevato qualche perplessità circa l'evidenza empirica a conforto di questa tesi (quali e quante difficoltà hanno incontrato davvero le popolari che hanno rafforzato i propri indicatori patrimoniali in vista degli stress test europei?), la questione più rilevante è invece: quand'anche la forma societaria costituisse un vincolo relativo nell'accesso al mercato dei capitali per le banche popolari con attivi consistenti, appare proporzionato un intervento regolativo che sopprima una tipologia di intermediari (confinandola nell'ambito delle banche con attivi limitati), determinando in tal modo anche la dispersione di un patrimonio di cultura imprenditoriale di cui il sistema si è finora giovato, che è costituzionalmente protetto e che è largamente diffuso internazionalmente?
3. Le alternative al provvedimento
L'esistenza e il successo delle banche di territorio si lega dunque alla specificità del modello imprenditoriale che esse rappresentano.
E' ragionevole, peraltro, che proprio la crescita dimensionale (tanto sotto il profilo dell'area di operatività, quanto delle consistenze patrimoniali) delle maggiori banche di territorio abbia fatto sorgere una esigenza di adattamento dei meccanismi di governance.
Gli interventi che possono essere proposti, tuttavia, devono avere come primo obiettivo la salvaguardia della specificità di queste banche, e non - suo esatto contrario - la loro forzata omologazione ad altre tipologie di istituti.
Vincoli territoriali all'operatività. Un primo, drastico, intervento che consideri la natura di banca di territorio incompatibile con l'espansione illimitata dell'area di competenza può vincolare l'operatività di queste banche ad una macroarea. Anche la facoltà di essere socio della cooperativa sarebbe in questo caso riservata ai residenti nella macroarea.
Il vincolo, tipico delle Bcc, ha sicuramente il pregio di rendere più stringente il funzionamento del meccanismo di group lending, ma impedisce ad un istituto - che mostri di essere in grado di svolgere il proprio compito anche su scala ampia - di sviluppare tutte le proprie potenzialità, a beneficio del sistema.
Il modello duale. La separazione tra funzione di supervisione strategica (consiglio di sorveglianza eletto dai soci con voto capitario) e consiglio di gestione (nominato dal supervisore strategico) può contribuire a garantire una professionalità maggiormente qualificata nell'organismo di gestione. E' opinione diffusa, infatti, che il voto capitario favorisca la selezione degli amministratori più sulla base della capacità di gestire il consenso che sulla scorta della effettiva esperienza e competenza professionale specifica.
Lo scarso successo del sistema dualistico, tuttavia, induce a nutrire qualche dubbio sull'efficacia della scelta; ma soprattutto si deve rilevare la scarsa incisività che questo modello di governance avrebbe sull'accesso della banca al mercato dei capitali, che pare invece essere il nodo da sciogliere.
Il voto capitario. Il limite strutturale maggiore che il regolatore sembra rilevare a carico delle banche di territorio sembra essere il criterio di voto capitario per l'elezione degli organi sociali.
Lungi dal negare che la crescita dimensionale di alcune banche cooperative con vocazione territoriale richieda una rimodulazione di questo criterio, è tuttavia necessario sottolineare che la via seguita del d.l. 3/2015 è l'opposto di quanto parrebbe opportuno per valorizzare le specificità e le risorse che questi istituti rappresentano.
Non solo, infatti, il decreto impone di dismettere la forma sociale cooperativa e il criterio del voto capitario, ma anche le ipotesi di temperamento alla trasformazione sociale forzata che sono state ventilate (limiti al possesso azionario; limiti al diritto di voto; maggiorazioni del diritto di voto per soci entrati nella compagine sociale prima della trasformazione) sono concepiti come contrari alle finalità della riforma o, al più, tollerabili in misura limitata solo nella fase di transizione (Rossi 2015)[11].
Se è vero, invece, che le banche di territorio rappresentano una risorsa per il sistema economico in quanto rispondono ad una comunità piuttosto che ad un azionista di riferimento, la rimodulazione delle modalità di partecipazione dei soci alla determinazione delle scelte e delle strategie aziendali dovrebbe avere come principale obiettivo la conservazione delle caratteristiche strutturali della banca.
E' oggettivo che la quotazione in borsa - resa opportuna dalla necessità di accedere al mercato dei capitali - metta a rischio la dimensione della banca come "banca di territorio": la strategia dell'azionista che non risiede nell'area di operatività della banca diventa, fatalmente, speculativa e poco - nel giudizio espresso sulla performance della banca - pesa il ruolo giocato dalla banca nella promozione delle economie locali.
In questo senso il voto capitario finisce per essere il baluardo al "divorzio" della banca dal territorio: proprio perché l'esercizio del diritto di voto risulta più oneroso per chi diventa azionista per mere ragioni speculative, il voto capitario assicura che a prevalere nell'orientare le scelte strategiche della banca e la selezione degli organi apicali siano gli interessi dei territori in cui la banca opera.
Gli interventi sul diritto di voto, quindi, devono essere finalizzati ad avvicinare il comportamento e l'interesse del "socio speculatore" ai comportamenti e agli interessi del "socio di comunità", piuttosto che viceversa.
In questo senso, è quasi paradossale che la proposta di riforma preveda, a favore delle sole banche di territorio di dimensione ridotta, l'adozione di accorgimenti che agevolano l'accesso al mercato dei capitali, incurante - in apparenza - delle possibili distorsioni che anche queste innovazioni potrebbero portare con sé. In particolare:
- l'introduzione di un numero minimo e l'innalzamento del numero massimo di deleghe attribuibili al medesimo socio per il voto in assemblea:
- l'emissione di strumenti finanziari partecipativi (ex art. 2526 c.c.), che possono conferire diritti rafforzati ai soci finanziatori, come la nomina di una parte degli amministratori (Rossi 2015).
Ma è sull'esercizio del voto capitario che vanno introdotte le innovazioni più incisive, capovolgendo la logica della riforma. Ovvero: anziché mirare alla soppressione della tipologia delle banche di territorio di grande dimensione, è opportuno prevedere l'introduzione del voto plurimo o maggiorato commisurato, entro limiti definiti, all'effettivo capitale sottoscritto.
La maggiore aggregazione della proprietà costituisce un incentivo alla partecipazione al voto assembleare e consegue quindi l'obiettivo di avvicinare gli interessi delle diverse tipologie di socio, oltre ad agevolare l'accesso al mercato dei capitali, rendendo possibile al socio esercitare - entro i limiti previsti - una influenza sulle delibere assembleari proporzionale alla quota di capitale detenuto.
Nei casi in cui la banca agisca su un territorio circoscritto, il voto plurimo può essere riservato ai soci residenti al di fuori dell'area di operatività: allo scopo di incentivare la partecipazione di questi ultimi alle assemblee.
4. Conclusioni
Ciò che rischia di andare disperso con la conversione forzata in società di capitali delle banche popolari è un modo di operare nel mercato del credito - una cultura d'impresa - che ha dato negli anni buone prove di sé, sia dal punto di vista della redditività, sia sotto il profilo della capacità di accompagnare la crescita economica regionale e nazionale.
Le possibili patologie che l'applicazione del modello - come è accaduto per ogni altro modello imprenditoriale - ha subito nel tempo non fanno velo alla opportunità di riconoscerne il valore e l'utilità:
a) da un lato, perché l'Autorità di Vigilanza dispone già oggi delle possibilità di intervento per sanare tali patologie: dalla moral suasion fino alla conversione della forma societaria della banca che non si riveli in grado - sul campo e non sulla base di un discutibile principio - di far fronte ai requisiti di solidità posti a tutela dei propri clienti;
b) dall'altro, perché appare possibile una modulazione delle caratteristiche peculiari di queste banche (in particolare, il voto capitario) che tenga in adeguato conto le questioni poste dalla loro crescita dimensionale, senza distruggere la loro impronta originaria.
Al contrario, l'abbandono forzato della veste cooperativa e del voto capitario espone questi istituti alla scalata da parte di investitori finanziari che, pur capaci di creare e gestire -con alterne fortune- gruppi bancari di rilevanti dimensioni, non sarebbero in grado di garantire la valorizzazione di questo patrimonio di cultura imprenditoriale, che andrebbe perduto, a danno non di particolari gruppi di interesse, ma dell'intero mercato del credito.
Riferimenti bibliografici
S. Rossi (2015), Audizione nell'ambito dell'istruttoria legislativa sul disegno di legge C.2844, di conversione in legge del decreto-legge n.3 del 2015, recante misure urgenti per il sistema bancario, Camera dei Deputati - Commissioni riunite Finanze e Attività produttive, commercio e turismo, Roma 17 febbraio 2015
Sull'utilità delle varie forme di esercizio del credito [12]
I. Problemi generali: macroeconomici.
La struttura del sistema bancario non è efficiente dato che non è adeguata all'obiettivo del finanziamento degli investimenti delle Pmi e nel territorio:anche la banca centrale ha sottolineato il fatto che la espansione monetaria non si è tradotta in un adeguato flusso di credito verso l'economia. Solo le banche locali hanno accesso ad informazioni spesso tacite e a superare le asimmetrie informative, per rispondere alle esigenze di finanziamento delle imprese sul territorio. Il finanziamento degli investimenti delle Pmi richiede delle banche locali e non è possibile il ricorso diretto al mercato finanziario come le grandi imprese che di fatto hanno diminuiti il ricorso al credito bancario. È necessario tenere conto anche degli obiettivi dello sviluppo e degli interessi delle imprese industriali che sono finanziate dalle banche e non solo dell'obiettivo della stabilità del sistema finanziario.
2. Problemi generali: il settore del credito
L'obiettivodella stabilità del sistema finanziario o bancario è compromesso se tutti gli operatori sono uguali e corrono gli stessi rischi operando secondo gli stessi criteri. La sicurezza del sistema finanziario rende necessarioisolare parte del sistema finanziario da fattori sistemici che operano in modo simultaneo su tutti gli attori di uno stesso sotto settore. La differenziazione tra le banche consente una diversificazione del rischio e una maggiore stabilità del sistema finanziario nazionale complessivo. Il sistema delle banche universali è pericoloso e determina inevitabilmente una concentrazione eccessiva che limita la concorrenza e crea delle imprese "too big to fail".
Esiste una complementarietà tra la diversità dello specifico campo di attività delle singole banche che impone che esse abbiano caratteristiche strutturali diverse o che abbiano una struttura della proprietà e di governance diversa. L'attività finanziaria o di concessione di credito e di investimento non impone un'unica soluzione ma soluzioni diverse secondo il tipo di investimento che le banche intendono compiere e quindi le banche devono avere una struttura diversa, secondo da un lato il campo di attività o il settori in cui investono e dall'altro secondo il mercato della raccolta dei fondi considerato (risparmio locale o emissioni di titoli sul mercato internazionale).
Analogo è il problema ben noto della necessaria distinzione tra banche commerciali e banche di investimento. Si deve prendere atto del fatto che per svolgere lavori diversi ci vogliono strutture diverse e che la separazione tra commercial banking e investment banking è codificata da lungo tempo. È chiaro che chi opera nel commercial banking ha una prospettiva di breve e ha accesso ad informazioni standardizzate e che chi opera sugli investimenti a medio termine deve essere in grado di utilizzare informazioni qualitative e assumersi un livello di rischio non quantificabile con meri indicatori di merito di credito.
L'eccessiva concentrazione del sistema bancario ha portato a meccanismi collusivi tra le diverse banche e tra le banche e i grandi gruppi industriali e finanziari, ed è certamente concausa importante della crisi del 2008 e dell'imponente operazione di salvataggio internazionale.
La diversità delle tipologie di banca è funzionale all'obiettivo di aumentare la concorrenza sul mercato del credito. La riforma permetterebbe di eliminare un pericoloso concorrente più capace delle grandi banche universali. Le caratteristiche delle banche popolari aumentano la concorrenza e valorizzano alcuni fattori del tutto legittimi che assicurano loro un vantaggio competitivo rispetto alle banche ordinarie.
La differenza nei modelli di management è un fattore importante della competitività delle singole banche. La concorrenza è possibile solo se i modelli di management delle imprese sono diversi e non avviene solo nel prezzo ma anche tramite la diversificazione della qualità del prodotto e servizio reso.
La concorrenza non deve essere fine a se stessa e non deve comportare un minore benessere per il consumatore. La concorrenza deve permettere la migliore soddisfazione del cliente, la cui soddisfazione può essere maggiore se la offerta valorizza le economie di prossimità o le soft information locali.
La riforma comporta uno stravolgimento della governance e tale riforma della governance non migliora ed anzi peggiora i risultati delle banche e avrà effetti negativi sul sistema delle imprese che sono clienti tipici delle banche popolari.
3. Problemi di natura locale o territoriale
Nel finanziamento delle imprese sono inevitabili le asimmetrie informative. Le informazioni tacite accessibili solo tramite contatti ravvicinati con le imprese che richiedono i prestiti. È errato parlare di "opacità" nella valutazione da parte della banca dei prestiti alle imprese quando si deve tenere conto di fattori qualitativi e non solo misurabili quantitativamente, dato che è inevitabile l'esistenza di asimmetrie informative tra banca e debitore ed è necessario avere accesso non solo a tutte le informazioni numeriche o monetarie ma anche a informazioni e conoscenze che sono tacite e disponibili solo a livello locale
In particolare lo sviluppo del credito alle famiglie e al settore delle costruzioni e immobiliare richiede valutazioni molto vicine al territorio. Le grandi banche universali si sono progressivamente ritirate da questo mercato o settore di attività per specializzarsi nell'investimento in titoli finanziari a scala internazionale.
È necessaria una visione nazionale ma anche un forte radicamento locale che permette alla banca di trarre vantaggi dall'investimento nella realtà locale considerata.
4. Problemi generali: microeconomici
La riforma non risponde al vero problema che non è la natura della proprietà ma il comportamento dei manager/amministratori, come provano anche i problemi sorti recentemente con decisioni prese in modo troppo affrettato senza tenere conto degli interessi dei risparmiatori e dell'impatto delle misure sul risparmio locale.
La dimostrazione che il vero problema non è la natura della proprietà o degli investitori che di fatto subiscono gli effetti negativi delle crisi bancarie, ma:
A) La carente e terribilmente tardiva sorveglianza sul management e prevenzione degli abusi da parte delle autorità competenti.
B) Il controllo e il rinnovo periodico del management che spesso fa operazioni finanziarie in perdita per colpa o per dolo in accordo con chi ha ricevuto prestiti dalle banche e non li restituisce.
C) L'intervento della magistratura che deve sanzionare i manager incapaci o corrotti.
5. La specificità delle banche popolari e la governance
Il voto capitario si applica nel caso di decisioni collettive di rilevanza nazionale e non si vede perchè debba essere limitato al caso di organizzazioni piccole (con un capitale inferiore a 8 mld).
Va sostenuto che il voto capitario è tipico della democrazia politica ove è inconcepibile ormai che il singolo abbia diritti diversi secondo il proprio patrimonio. Il sistema del voto capitario non impedisce nè nel caso della singola banca nè nel caso di un sistema paese che il capitale sia distribuito in modo diseguale e nulla impedisce che nelle banche popolari ci siano azionisti che hanno investito un capitale maggiore che altri. Il voto capitario si giustifica quando è necessario che la banca si comporti (come lo Stato) nell'interesse di tutti e non solo nell'interesse di quelli che hanno un capitale maggiore.
In particolare, il voto capitario è funzionale o indispensabile per assicurare un radicamento della banca nella comunità e nell'economia locale
Gli azionisti delle banche popolari sono rappresentati in assemblea non in quanto investitori finanziari ma in quanto rappresentanti degli interessi del territorio o degli utenti stessi della banca. Infatti l'obiettivo della banca cooperativa non è quello di remunerare in modo piu' elevato il capitale ma quello di contribuire allo sviluppo economico della realtà locale, assicurando un rendimento normale al capitale investito. Di fatto gli azionisti rappresentati in assemblea devono tutelare questa missione sociale o territoriale della banca cooperativa.
La partecipazione al capitale di rischio può essere variabile ma il diritto di voto non deve essere proporzionale al capitale investito ma unico per ogni investitore in modo da tenere conto dell'insieme degli investitori o della comunità locale e non di interessi individuali. Il diritto di voto potrebbe essere limitato ai residenti nella regione considerata e gli investitori non residenti potrebbero essere esclusi dal partecipare alla assemblea in modo attivo.
Il problema della ricapitalizzazione delle banche:
· si possono trovare altri strumenti per assicurare la ricapitalizzazione delle banche e per attivare il risparmio locale,
· solo se si assicura una forte rappresentanza a scala locale sarà possibile raccogliere capitali a scala locale,
· necessario stimolare l'investimento locale tramite l'assicurazione di vantaggi locali.
La dimensione e la distribuzione degli utili. Gli utili delle banche popolari devono tenere conto del fatto che tali banche hanno come obiettivo di creare un beneficio per il territorio e per i diversi attori/stakeholders e non solo per gli azionisti delle banche stesse.
La riforma dei poteri del management. Il problema delle banche popolari cooperative non è la struttura dell'azionariato o il principio del voto capitario rispetto a quello del valore del capitale investito, ma il problema del controllo degli azionisti sugli amministratori. Infatti in presenza di una proprietà frammentata il management, che si tratti o meno di SpA, assume un potere eccessivo. Un problema di collusione tra manager e azionisti e di scarsa rotazione del management avviene anche nel caso di società di capitale con molti azionisti.
Sono tuttora carenti e richiedono una riforma i meccanismi di selezione e rotazione del management della banca popolare dato che il management può trarre un beneficio da una eccessiva frammentazione della proprietà è quindi necessario individuare forme che permettano una maggiore aggregazione degli azionisti in modo che i loro rappresentanti possano indicare chiari linee strategiche al management della banca cooperativa. Il problema è analogo a quello nella democrazia politica ove i politici eletti danno indicazioni vincolanti ai dirigenti della amministrazione pubblica.
È necessario regolamentare non solo l'azionariato ma anche il potere del management e impedire la irresponsabilità dei manager e meccanismi di tipo autocratico o di mera cooptazione.
6. Il principio di libertà
È necessario rivendicare un principio di libertà per cui ogni cittadino e organizzazione è libero di decidere come meglio organizzarsi per perseguire scopi legittimi e la normativa non deve pretendere di vincolare tutti agli stessi comportamenti ma solo impedire eventuali danni a terzi o effetti negativi sul benessere di altri. Unobbligo di assumere la forma di società per azioni contraddice il diritto di libertà che ogni cittadino ha di decidere la forma e il contenuto dei propri contratti. In particolare non si possono imporre per legge vincoli che limiterebbero la iniziativa economica o la capacità competitiva delle banche popolari rispetto alle altre banche.
Il benessere collettivo dipende dalla complementarietà tra i diversi soggetti e non si deve imporre dall'alto l'omogeneità o l'omologazione a comportamenti o modelli ritenuti più "corretti" o "moderni". È ormai consolidata nella letteratura la consapevolezza che esistono modelli diversi di "capitalismo" (renano, anglosassone, delle piccole e delle grandi imprese, ecc.), e che l'esperienza storica indica che ognuno ha avuto fasi diverse di successo e insuccesso relativo.
Sulla tematica dell'accesso al mercato finanziario economico strumentale[13]
" La trasformazione in SpA, che dovrebbe comunque essere accompagnata da accorgimenti finalizzati a mantenere nel tempo l'attuale carattere di Public-company indipendente, andrebbe prevista non quale obbligo cogente ed ineludibile, ma solo quale sanzione, per le popolari che non completino un percorso evolutivo finalizzato, tra l'altro, a riconoscere al voto capitario un ruolo non esclusivo, ed al voto proporzionale un ruolo non marginale".
Dalle conclusioni dell'audizione presso la Camera dei Deputati del presidente di Assopopolari dott. Ettore Caselli del 19.2.2015.
Per le nostre considerazioni è utile partire da questa che ci pare l'unica apertura ufficiale e sufficientemente esplicita di Assopopolari al tema che stiamo analizzando: come dar vita ad un processo di cambiamento delle banche popolari che possa rispondere - senza snaturarle - ad alcune esigenze espresse dal mercato, dai Regolatori e diffuse nell'opinione pubblica. Non rileva, ai fini di questo lavoro, se molte delle critiche che vengono collegate alla formula di banca popolare siano sbagliate, parziali o in cattiva fede.
Vogliamo solo dimostrare che queste "obiezioni" alla permanenza dello status di popolare sopra una certa dimensione:
a) sono teoricamente risolvibili con modelli statutari e di governance che rispondono alla necessità di bilanciare (come dice Caselli) il ruolo dell'azionariato diffuso con quello dell'investimento di capitale;
b) che esistono casi reali - la Banca Popolare di Milano dalla fine del 2011 ad oggi - in cui questa situazione è stata realizzata sotto lo stretto controllo/indirizzo di Bankitalia ed ha garantito un rilancio giudicato, a consuntivo, molto positivamente.
Sono sicuramente possibili formule statutarie che consentono agli investitori istituzionali di eleggere, in un percorso separato e al riparo dalle "logiche" dl voto per testa, i propri amministratori, in grado di verificare che la gestione rispetti gli obiettivi comunicati al mercato e sulle cui basi gli investitori hanno sottoscritto quote sempre più significative di capitale delle grandi popolari.
Ciò si traduce anche in meccanismi statutari che prevedano maggioranze qualificate per le decisioni fondamentali e per il funzionamento dei diversi comitati (controlli ad es.), maggioranze non raggiungibili senza il voto favorevole di questi amministratori in modo che la loro funzione risulti dirimente in un appropriato bilanciamento di poteri.
Uno schema del genere, applicato in un modello "duale" (dove la distinzione tra la funzione di supervisione strategica, quella di gestione e quella di controllo è accentuata dall'essere attribuite a organi distinti) può ulteriormente scongiurare rischi di ingerenza non sana di gruppi di soci nelle scelte di conduzione aziendale e rischi di autoreferenzialità.
Questa possibilità è già in parte prevista nelle disposizioni di Vigilanza Capitolo I GOVERNO SOCIETARIO. Alla sezione quarta "Composizione e nomina degli organi sociali", nei principi generali all'ottavo capoverso si legge: "Le modalità di nomina e di revoca degli organi aziendali devono essere trasparenti e disciplinate a livello statutario. Tali modalità devono assicurare una adeguata rappresentanza negli organi aziendali delle diverse componenti della base sociale (investitori istituzionali, minoranze qualificate)". Alla sezione quinta "Funzionamento degli organi, flussi informativi e ruolo del Presidente" Bankitalia prevede un punto (1.3) specifico per le popolari che devono prevedere nello statuto: "...i criteri per la presentazione delle liste per la nomina dei consiglieri. Se la banca popolare è quotata, la presentazione delle liste è consentita anche ai soci che rappresentano percentuali di capitale sociale stabilite dallo statuto e definite in modo coerente con la dimensione e l'articolazione degli assetti proprietari".
Una simile innovazione nella governance dovrebbe sicuramente cancellare le preoccupazioni espresse in varie sedi da Salvatore Rossi in tema di capacità di ricapitalizzazione delle popolari. Dice il dr Rossi Direttore generale di Bankitalia: "La formula giuridica cooperativa è uno svantaggio competitivo in questo contesto: se l'aumento di capitale che viene richiesto è, per dimensione e per urgenza, realizzabile solo sul mercato dei capitali, fattori quali il voto capitario e i limiti al possesso azionario e alla rappresentanza in assemblea sono assai poco attraenti per investitori istituzionali che desiderano incidere sulle scelte gestionali dei soggetti finanziati al fine di tutelare il loro investimento.." (Camera dei Deputati 17.2.15) L'affermazione è contraddetta dalla capacità realizzata delle banche popolari di reperire capitali sul mercato. Ma qui si assume che le argomentazioni dei "critici" abbiano qualche elemento di fondatezza, per dimostrare comunque che esiste una gamma di opzioni senza la necessità di imporre la trasformazione in SpA (o con parole diverse che la legge è sproporzionata pure rispetto ai fini dichiarati). Ma c'è di più, l'esperimento di una popolare "ibrida", accompagnato da un processo positivo di risanamento dei conti, è già stato realizzato sul campo con l'assetto assunto dalla BPM dal 2011 a oggi.
In quella fase la banca era in piena crisi: di risultati, di management (dimissioni e ricambio del DG), reputazionale (vicenda "convertendo") e nei rapporti con l'Organo di Vigilanza che ha concluso un'ispezione dagli esiti pesantissimi affibiando "add on" in termini di capitale che impediscono qualsiasi sviluppo possibile e mettono in discussione la solidità patrimoniale.
In più scandali pesanti, legati a concessione di crediti contro versamento di "dazioni", coinvolgono la Presidenza stessa della banca (che non è di antica nomina ma di recente e innovativa nomina su indicazione politica, anzi governativa) e in questo contesto coloro che hanno forte influenza sul voto assembleare non trovano nulla di meglio che ingaggiare un inutile e stupido braccio di ferro con Bankitalia bocciando la proposta di innalzamento delle deleghe di voto proposta dal Consiglio di Amministrazione (proposta fortemente "suggerita" da Bankitalia).
Si apre così una crisi in Consiglio che porta nell'autunno ad una assemblea straordinaria nella quale si modifica profondamente lo Statuto e si procede al rinnovo degli organi in base alle nuove Regole statutarie che sono letteralmente "dettate" al Consiglio uscente (che le deve proporre ai soci) dalla Banca d'Italia.
Varie versioni vanno avanti e indietro da Milano a via Nazionale fino alla formula che tuttora è in vigore e che ha come obiettivo dichiarato quello di impedire che si possano riprodurre tutte le disfunzioni nella governance che hanno messo in crisi la banca. Si fronteggiano in assemblea due schieramenti entrambi capitanati da due finanzieri "cavalieri bianchi" in grado di fare fronte con risorse proprie alle prime necessità di ricapitalizzazione: Andrea Bonomi contro Matteo Arpe.
Qui, più di scrivere la storia recente di BPM, interessa esaminare i punti centrali in cui si sostanzia lo Statuto nuovo e che consentono in quella fase "emergenziale" l'ingresso in un ruolo preminente di grandi investitori privati e un successivo processo di risanamento.
Intanto si impone il sistema "duale" con caratteristiche molto influenzate dalla contingenza del momento: non c'è funzione di supervisione strategica del Consiglio di Sorveglianza (diversamente da ciò che accade nelle situazioni dove il duale è già utilizzato) e i poteri sono fortemente sbilanciati sul Consiglio di Gestione (il che si rivelerà poi un problema per l'eccessiva autoreferenzialità di un solo azionista).
Ma ai nostri fini rileva che lo Statuto consente agli ORGANISMI DI INVESTIMENTO COLLETTIVO l'elezione di 3 amministratori con una corsia "preferenziale" e in aggiunta, in automatico, di 1 amministatore ciascuno per i 2 soci "industriali" della banca (allora Credit Mutuel e Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria che aveva apportato la "propria" banca in BPM). Per la nomina e la revoca del Consiglio di Gestione prevede maggioranze qualificate di 3/4 ma tale maggioranza DEVE includere il voto favorevole di un consigliere rappresentantedei FondiEdi un consigliere rappresentativo dei soci "industriali".
Analogamente nel Comitato per i controlli interni e nel Comitato Nomine queste categorie di amministratori devono essere presenti. Nel Comitato Nomine le deliberazioni sono prese a maggioranza ma tale maggioranza deve necessariamente includere il voto favorevole sia del Consigliere dei Fondi che di quello dei soci industriali.
Non si tratta di erigere questi meccanismi a modello. Si tratta solo di rilevare che anche in situazioni complicate e difficili esiste la possibilità di contemperare esigenze e interessi dell'azionariato diffuso con quelle degli investitori istituzionali e finanziari e i meccanismi di governance possono prevedere questo "equilibrio", pur rimanendo nell'alveo del sistema delle popolari. Il successivo fermo rifiuto della maggioranza dei soci alla trasformazione in SPA, proposta dall'azionista di riferimento il finanziere Bonomi nel corso del 2013, non ha impedito che nuovi amministratori e manager conducessero in porto le successive ricapitalizzazioni, il rilancio operativo e il superamento brillante degli AQR e stress test della BCE (secondo sem. 2014). La noticina un po' paradossale è che oggi sono in carica amministratori nominati da alcuni Fondi ma non c'è più la partecipazione azionaria che essi dovrebbero "tutelare" venduta dal finanziere per realizzare un capital gain a breve.
Il che dimostra che anche l'assunto di Rossi sui Fondi che vogliono gestire le aziende è almeno opinabile. Vi è un riscontro di ciò nella pratica delle società quotate in borsa. In queste società, i Fondi sono liberi di esercitare il voto proporzionale ma, di norma, in Assemblea dei soci, i Fondi si astengono dal votare, per prassi e regolamenti loro.
La quotazione in Borsa delle popolari è strumento utile per l'accesso al mercato finanziario e non è in contrasto con la loro natura, anzi è alla stessa congeniale essendo strumento di proprietà diffusa. Essa permette di contare, in caso di necessità di aumentare il capitale, sia sull'apporto dei propri soci storici che raramente è mancato che di quegli investitori istituzionali di lungo termine, mente in nessun caso sarà possibile né utile contare sugli investitori tocca e fuggi che sono esclusivamente interessati a guadagni di capitale a breve con operazione speculative. Questi sì sono in contrasto esistenziale con le popolari, mentre la c.d. riforma ha l'unico obiettivo comprensibile di aprire loro la porta. Anche l'accesso al mercato finanziario va segmentato e finalizzato alla luce degli obiettivi di lungo termine dell'impresa, della sua natura, della sua cultura, della sua storia.
Sulla tematica del mismanagement e dei possibili rimedi
Un'altra fiaba ampiamente alimentata dal pensiero che sostiene il d.l. in discussione è che la tematica del mismanagement sia legato alla forma giuridica. L'elenco delle bancarotte e scandali bancari realizzati attraverso l'uso e l'abuso della società per azioni è impressionante, da Sindona a Calvi al Monte dei Paschi di Siena allo scandalo di subprime della JP Morgan, alle tempeste dello IOR, al disastroso fallimento della Lehman Brothers, tutte SpA. Lo scandalo più grosso delle popolari è stato quello della Banca Popolare di Lodi, stimolata verso una dissennata corsa a sempre maggiori dimensioni attraverso acquisizione e fusioni, sostenuta se non guidata dall'allora governatore Antonio Fazio della Banca d'Italia. E' impressionante come l'attuale direzione della Banca d'Italia stia guidando il sistema verso un ciclo analogo a quello del governatore Fazio, perseguendo le stesse credenze ed obiettivi che guidavano questo governatore dall'azione del quale la caduta di credibilità della Banca d'Italia non si è più interamente ripresa.
Il problema del mismanagement, problema generale e universale, ha poco o nulla a che fare con la forma giuridica della banca, ma richiede:
- una efficace e tempestiva vigilanza sul management da parte delle autorità competenti che già hanno tutti i poteri per evitare abusi e anticipare pericoli. Nonostante le campagne di sostegno televisivo e presidenziali il giudizio diffuso tra esperti e operatori, e ampiamente documentato, è che tale vigilanza sia stata recentemente molto insufficiente e tardiva. E questa ricerca di sostegni metodici, fa semplicemente alzare il tasso di sfiducia nel sistema;
- il controllo e il rinnovo periodico del management, certamente entrambi realizzabili anche per le popolari, senza cancellarne il "genus";
- l'intervento duro della magistratura che deve rapidamente sanzionare manager e amministratori incapaci e corrotti, sia sul piano penale che del ristoro di danni provocati.
Annotazioni su memorie di costituzione in giudizio depositate da banca d'Italia e da Presidenza del Consiglio dei Ministri rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato.
1. La memoria della Banca d'Italia dedica ampio spazio per sostenere la carenza di interesse a ricorrere in capo a tutti i ricorrenti. Il tema è evidentemente decisivo, perché se fosse fondato chiude la partita. La memoria dell'Avvocatura (che sembra molto più seria dell'altra) non solleva questo argomento. Vi è qualche ragione che spiega questa differenza? Questo contrasto può essere utile?
2. Un trucco retorico della memoria della Banca d'Italia è di giocare sui termini cooperazione e caratteristiche mutualistiche. I due termini sono spesso usati come se avessero lo stesso significato. E invece è da tempo pacifico che una struttura cooperativistica può esistere anche senza l'elemento di mutualità interna e si è così sviluppato il concetto di mutualità esterna basato sulla distribuzione di utilità nel territorio, requisito presente nella grande maggioranza delle banche popolari, anche con norme statutarie. Questo trucco retorico va smontato con vigore. A pag. 26 della memoria della Banca d'Italia si afferma: "oppure prendere atto della incompatibilità del regime delle società mutualistiche per intermediari enormi e ad operatività internazionali". Ma nessuno dei soggetti in parola è o pretende di trovarsi in un regime mutualistico. A pag. 30 della stessa memoria si afferma che le popolari apparterrebbero al "generis delle società cooperative a mutualità prevalente". Si tratta di una affermazione fuorviante perché è pacifico da tempo, in dottrina e giurisprudenza, che le popolari non appartengono a tale "generis", come è del resto chiaramente enunciato nella memoria dell'Avvocatura: "sicché è sempre stato escluso che una banca popolare potesse essere qualificata come cooperativa a mutualità prevalente". Siamo d'accordo. La Banca d'Italia, invece, dissente per confondere le acque.
3. Un altro trucco retorico evidente consiste nel citare a sostegno dei propri argomenti testi presumibilmente scritti da chi fa la citazione. Spesso, ad esempio, si cita come documento di sostegno la relazione al d.l. di conversione del decreto, cioè un testo che se non scritto direttamente dalla Banca d'Italia è stato certamente con la stessa concordato. Così attraverso queste citazioni incrociate sono sempre le stesse poche persone che parlano tra loro e si auto citano. A pag. 13 questo trucco retorico diventa, nella memoria della Banca d'Italia, sfacciato.
Prima si afferma che siffatta riforma trova riscontro anche nei continui richiami sul punto del Fondo Monetario Internazionale e della Commissione Europea ma questi continui richiami non vengono identificati. E poi tra virgolette si citano delle riflessioni che sono tratte dalla Relazione al d.l., e che vengono citate in modo da far credere al lettore affrettato che esse coincidano con quelle presunte del FMII e della Commissione. Invece il parere più oltre analizzato del CESE (organo di consulenza istituzionale della Commissione europea) afferma: "Anche il Fondo Monetario Internazionale pone l'accento sul ruolo essenziale della banche cooperative. Questi istituti che dipendono in misura minore dalla aspettativa degli azionisti soddisfano in modo affidabile e sicuro le necessità di credito delle PMI e di molti nuclei familiari". Chi dice il vero?
4. Accanto agli esercizi retorici ed alle affermazioni non documentate (come quella riferita al FMI e alla non meglio definita "Europa" emergono evidenti contraddizioni, come le seguenti:
- a pag. 12 della memoria Banca d'Italia si cita come ragione dell'urgenza dell'intervento il "Credit crunch". Abbiamo illustrato come le statistiche dimostrino che le popolari sono il settore creditizio che ha lasciato lo spazio minore al "credit crunch", anche a costo di un controllato aumento del rischio di credito. Ben lungi dal costituire un caso di imprudente gestione del credito, questa scelta ha dato sostanza agli inviti delle Autorità competenti ad evitare fenomeni di "credit crunch" che amplificassero gli effetti della recessione;
- tutta la memoria della Banca d'Italia è (erroneamente) dominata dal concetto che le popolari in parola sono troppo grandi e operano su troppe province per poter essere definite banche territoriali. Ma la memoria dell'Avvocatura cita una testimonianza del Direttore Generale della Banca d'Italia nell'audizione nell'ambito dell'istruttoria legislativa sul disegno di legge di conversione in legge del d.l. n. 3/2015 che afferma: "Innanzitutto la concentrazione geografica e settoriale dei prestiti rende le banche territoriali intrinsecamente fragili non potendo ricorrere oltre certi limiti alla diversificazione dell'attivo".
Allora queste banche non possono definirsi territoriali perché troppo grandi o sono territoriali e "quindi" fragili? Qui si gioca con le parole e con concetti che non essendo definiti con precisione, sono ambigui e vengono usati in modo contraddittorio.
Non lo chiede l'Europa
Un altro trucco retorico che però merita distinta evidenza è quello di fare riferimento a non identificate necessità derivanti dalla legislazione europea, e questo vale per entrambe le memorie. Ad esempio si cita l'entrata in vigore della Vigilanza europea e del "bail in" come ragioni dell'intervento sulle popolari. Ma si tratta di cose completamente diverse e pacificamente applicabili alle banche popolari, a prescindere. In tutto il testo aleggia una specie di misterioso: "lo chiede l'Europa". Ma quale Europa? Anche Francoforte è in Europa ma le istituzioni democratiche che rilevano e che rappresentano l'Unione Europea non sono a Francoforte.
Per uscire da questo grande imbroglio si deve chiedere con chiarezza: quale specifica norma o disposizione regolamentare delle istituzioni politiche e legislative europee stabilisce che il credito cooperativo ed il voto capitario vanno cancellati? Perché la vera ed unica ragione della c.d. riforma è chiarita sin dalle prime parole della memoria Banca d'Italia quanto a pag. 3 della stessa si afferma che la riforma in parola "prende in considerazione le banche popolari quale modello da riportare alla logica di mercato" (si intende sotto il profilo del voto capitario) e questo è tutto. E chi lo stabilisce? Chiediamo ci venga indicata una norma europea che faccia chiarezza su questo punto centrale. Altrimenti, si tratta di una semplice impostazione ideologica e politica portata avanti da alcuni tecnici privi di una base ragionevole, culturale, politica, legislativa. E come conciliare questa favola dell'Europa che lo chiede con le affermazioni del CESE, il Comitato economico e sociale europeo che in data tre febbraio 2015 ha formulato il suo parere su: "Il ruolo delle banche cooperative e delle casse di risparmio nella coesione territoriale - proposte per un quadro di regolamentazione finanziaria adottato". Il parere è stato approvato nella sessione plenaria dei giorni 18 e 19 febbraio 2015, con 153 voti favorevoli, 2 voti contrari e 10 astensioni.
Nelle "Conclusioni e raccomandazioni" formulate da questo Organismo che fa parte delle istituzioni europee e che quindi può rappresentare veramente una voce europea legittimata e autorevole, si legge:
1 " Conclusioni e raccomandazioni
1.1. Il CESE ritiene che, nella transizione verso nuovi modelli di attività bancaria (new banking business model) e non bancaria di natura finanziaria, sia indispensabile preservare la "biodiversità" delsistema finanziario, senza che questo implichi, arbitrarietà nell'applicazionedelle norme.
1.2. Le banche in cui prevale il valore per l'azionista (shareholder's value o SHV) devono essere complementari, in modo efficiente, alle banche in cui prevale il valore per le parti interessate (stakeholder's value o STV) attraverso le attività all'ingrosso, al dettaglio e d'investimento. Soltanto in questo modo sarà possibile pervenire a un ecosistema finanziario stabile ed efficace, che contribuisca appieno allo sviluppo dell'economia reale.
1.3. Il CESE appoggia risolutamente gli sforzi compiuti dalla Commissione europea nel prendere in considerazione nella nuova regolamentazione finanziaria la specificità -delle banche cooperative e delle casse di risparmio evitando le conseguenze indesiderate derivanti dall'uniformità nell'applicazione delle norme prudenziali e il possibile eccesso di oneri amministrativi.
1.4. Ciononostante, il problema principale continua a riguardare l'adeguata applicazione del principio di proporzionalità nella nuova regolamentazione bancaria (specialmente in rapporto alla direttiva sui requisiti patrimoniali - CRD IV - e al regolamento sui requisiti patrimoniali - RRC-), che il Comitato di Basilea ha invece proposto di applicare in modo proporzionale, conformemente ai Trattati dell'Unione europea. Questo implica che bisognerebbe applicare i requisiti più stringenti alle banche che operano a livello globale, requisiti rigorosi alle banche paneuropee (che hanno carattere sistemico in Europa) e requisiti più flessibili alle banche nazionali e locali (garantendo un livello adeguato di protezione per il consumatore).
1.5. Non si tratta qui di concedere gratuitamente privilegi a determinati comparti del settore finanziario. Il CESE ha sempre puntato sulla parità di condizioni e, di conseguenza, sollecita l'utilizzo di parametri oggettivi che giustifichino una regolamentazione specifica per ogni modello di attività. Fondamentalmente, questi parametri sono i risultati economici e finanziari, il contributo all'economia reale, la gestione del rischio e la governance. Il CESE propone alle autorità finanziarie di incentivare gli attori che meglio soddisfino tali condizioni.
1.6. Se da un lato il CESE intende valorizzare il modello bancario rappresentato dalle banche cooperative e dalle casse di risparmio, dall'altro afferma con forza il suo totale rifiuto di determinati comportamenti del settore finanziario, seguiti anche da alcuni attori di questo settore, e chiede un rafforzamento delle norme deontologiche e dei codici di buona governance per l'insieme del settore finanziario quale conditio sine qua non per recuperare la fiducia perduta.
1.7. Il CESE sottolinea gli .effetti drammatici che il persistere della stagnazione e il rincaro del credito alle PMI e alle famiglie possono avere per il futuro dell'Unione europea. Il Comitato fa proprie inoltre le critiche recentemente rivolte dal Parlamento europeo alla posizione del Comitato di Basilea che ha messo in discussione gli strumenti specifici europei tesi a finanziare le PMI.
1.8. Se l'Europa vuole affrontare con successo le sfide future ed essere un agente del cambiamento (invece di subirlo in modo passivo), dovrà adottare con urgenza una serie di misure nel settore finanziario che portino all'attuazione effettiva della strategia Europa 2020, degli Atti per il mercato unico I e II, dello Small Business Act, del programma COSME, dell'iniziativa per l'imprenditoria sociale, ecc. Il rafforzamento del ruolo delle casse di risparmio e delle banche cooperative nel sistema finanziario europeo sarà determinante per la realizzazione di questi obiettivi.
2. Le banche cooperative e le casse di risparmio nel contesto finanziario europeo
2.1. Le casse di risparmio e le banche cooperative hanno storicamente svolto un ruolo chiave nello sviluppo dell'economia, in particolare nel sostenere l'agricoltura, la piccola industria e il commercio. Attualmente esse rappresentano circa il 40% del settore finanziario dell'Unione europea (in Francia raggiungono il 70% e in Germania il 60%), con significative differenze nella loro configurazione da un paese all'altro. Nel caso delle casse di risparmio la concentrazione settoriale in paesi come la Spagna e la Finlandia contrasta con la forte frammentazione della Germania o dell'Austria.
2.2. In generale l'effetto della ristrutturazione bancaria è un panorama di istituzioni finanziarie più circoscritto, più sano ma anche meno inclusivo, nella misura in cui negli ultimi anni è stato tagliato il flusso di finanziamenti alle PMI e alle famiglie, accompagnando questo taglio con la graduale diminuzione della rete territoriale di agenzie e con la forte riduzione di posti di lavoro. Questo fenomeno può essere intensificato se la banca locale viene espulsa dal mercato.
2.3. Le banche cooperative e le casse di risparmio, quali modelli di attività bancaria al dettaglio,
presentano elementi distintivi molto significativi: il loro legame con il tessuto produttivo locale, il loro radicamento territoriale, la capillarità delle loro reti commerciali, la prossimità alla clientela, il finanziamento di settori specifici, la contiguità agli interessi locali e agli attori sociali, nonché la solidarietà.
2.4. La configurazione strutturale delle casse di risparmio e delle banche cooperative spinge generalmente questi istituti di credito a possedere strutture patrimoniali sane con un'assunzione di rischi ragionevole, e indirizza i loro processi di investimento e capitalizzazione in linea con le politiche di sviluppo territoriale endogeno.
2.5. Dal punto di vista concettuale è opportuno fissare le caratteristiche che differenziano le banche cooperative dalle casse di risparmio:
- le banche cooperative sono enti di diritto privato che soddisfano due condizioni: sono società cooperative e, al tempo stesso, sono istituti. di credito la cui finalità principale consiste nella prestazione di servizi finanziari ai loro soci/proprietari e clienti. I principi cooperativi su cui è basata la loro governance sono quello di un processo decisionale democratico e quello di partecipazione (una persona, un voto); inoltre, una parte significativa dei loro utili è destinata a fondi di riserva e a fondi sociali con dotazione obbligatoria;
2.6. le casse di risparmio sono enti di diritto privato collegati a fondazioni che perseguono essenzialmente due obiettivi: l'attività finanziaria e la finalità sociale. La singolarità del modello consiste nell'assenza di proprietari espliciti, anche se esistono altre configurazioni, come le società di diritto pubblico o le società perazioni. Quando fanno capo a fondazioni, i membri degli organi direttivi sono nominati da un'assemblea generale in cui sono rappresentati gli enti locali e regionali e anche - a seconda dei paesi - i clienti, i soci fondatori e i dipendenti. Gli utili sono accantonati a riserva o destinati a opere sociali. I dati relativi alle banche cooperative sono molto significativi in tempo di crisi: nessuna banca cooperativa è stata oggetto di una procedura concorsuale nell'UE. Esse detengono circa il 20% della quota di mercato in termini di depositi; in paesi come l'Italia, la Francia, la Germania e i Paesi Bassi finanziano tra il 25% e il 45% dei prestiti alle PMI e la loro quota di depositi è aumentata in modo costante nel corso degli ultimi anni, fatto che costituisce un importante segnale di fiducia verso questo tipo di organismi.
2.7. Dal canto loro, le casse di risparmio hanno mantenuto una forte partecipazione al sistema finanziario dell'UE. Ad esempio, in Germania la loro quota di mercato è del 43% in termini di depositi e del 39% sotto il profilo dei prestiti; in Spagna le loro quote di mercato sono rispettivamente del 41% e 42%.
2.8. Anche il Fondo Monetario internazionale[14] pone l'accento sul ruolo essenziale delle banchecooperative. Questi istituti, che dipendono in misura minore dalle aspettative degli azionisti, soddisfano in modo affidabile e sicuro le necessità di credito delle PMI e di molti nuclei familiari. ( Sottolineatura aggiunta).
2.9. Ciononostante, si possono osservare delle eccezioni: alcune casse di risparmio e banche cooperative hanno tralasciato gli obiettivi loro propri, entrando con forza nel mercato delle attività speculative e puntando su espansioni eccessive in altri territori, circostanze che ne hanno minato il prestigio e che sono state il motivo alla base dell'introduzione in alcuni paesi di misure di regolamentazione che per alcuni aspetti hanno snaturato questo modello di banca.
2.10. In sintesi, il rafforzamento del capitale, il raggiungimento di una dimensione adeguata, il mantenimento del radicamento territoriale e la salvaguardia degli alti livelli di tutela del consumatore devono andare di pari passo con il mantenimento delle caratteristiche di fondo di un modello d'impresa specifico. Il CESE chiede alle istituzioni dell'Unione europea di riconoscere e sostenere questo processo.
3. Sfide per Io sviluppo dell'attività bancaria al dettaglio
3.1. Le banche cooperative e le casse di risparmio possiedono le caratteristiche tipiche di un modello di attività bancaria al dettaglio: prossimità alla clientela, radicamento territoriale, cooperazione, finalità sociale, ecc. Lo sviluppo delle loro potenzialità è tuttavia condizionato da differenti fattori[15]:
- la crescente concorrenza ha comportato un taglio progressivo dei margini di intermediazione finanziaria;
- la distribuzione multicanale richiede ingenti investimenti nella tecnologia;
- dimensioni insufficienti comportano, in taluni casi, la necessità di stringere alleanze strategiche tra istituti o di realizzare fusioni;
- i fenomeni di concentrazione non sono privi di rischi e possono implicare diseconomie di scala;
- è difficile conciliare la banca di prossimità con la diversificazione geografica sui mercati internazionali.
3.2. Ciononostante, le banche cooperative e le casse di risparmio continuano a svolgere un ruolo molto importante nel raggiungimento degli obiettivi della strategia Europa 2020 attraverso la loro funzione finanziaria, sociale e territoriale, e la loro attività è integrata dalle forme di finanziamento non bancario (finanziamento collettivo - crowdfunding, capitale di rischio, investitori informali - business angels, ecc.) sorte a causa della forte contrazione del credito bancario (credit crunch) e delle ingenti garanzie richieste
3.3. Il CESE ritiene che le autorità economiche e finanziarie debbano rafforzate le misure per rendere più facile l'accesso ai fondi da parte delle PMI eper stimolare i finanziamenti a lungo termine, promuovendo la varietà delle forme d'impresa[16] é la ripartizione dei rischi nel settore dei servizi finanziari.
4. Funzione sociale al servizio delle economie locali
4.1. Nelle banche cooperative e nelle casse di risparmio la funzione finanziaria e quella sociale sono strettamente intrecciate nel loro sostegno all'obiettivo della coesione territoriale. L'impegno sociale e l'interesse per la comunità. Sono le caratteristiche più visibili per i cittadini[17].
4.2. L'avanzo realizzato viene distribuito a vantaggio della cultura, dell'assistenza sociale e sanitaria, dell'istruzione e della ricerca, del patrimonio storico e artistico, della sostenibilità ambientale, ecc., e nel caso delle casse di risparmio il dividendo sociale rappresenta svariati miliardi di euro l'anno.
4.3. Di fronte alla necessità di creare valore per le economie locali, l'approccio del "valore per le parti interessate" (stakeholder's value) sta acquisendo sempre più importanza. In concreto, la banca sociale facilita l'inclusione finanziaria e la coesione territoriale, promuovendo l'imprenditoria e la realizzazione di progetti di microfinanza e di investimenti socialmente responsabili.
4.4. Le banche cooperative e le casse di risparmio svolgono un ruolo importante quali intermediari degli strumenti e dei programmi dell'UE. Il CESE punta a facilitare la funzione di intermediazione degli strumenti finanziari della Banca europea per gli investimenti (BEI) e del Fondo europeo per gli investimenti (FEI) a favore delle banche cooperative più piccole attraverso la semplificazione dei requisiti amministrativi, un aspetto che è fondamentale per la realizzazione del piano Juncker. E' inoltre indispensabile rafforzarne il ruolo nell'attuazione dell'iniziativa per l'imprenditoria sociale.
5. Effetti della ristrutturazione sul settore dell'attività bancaria a finalità sociale
5.1. Negli ultimi tempi, le casse di risparmio in Europa sono state sottoposte a un intenso processo
di ristrutturazione che ha comportato in alcuni paesi la trasformazione della loro natura di fondazioni.
5.2. Successivamente, a causa della crisi finanziaria mondiale, sono stati realizzati processi di salvataggio e risanamento, di fusione e acquisizione, di nazionalizzazione e -persino di trasformazione dell'assetto proprietario ("bancarización") per le casse di risparmio spagnole.
5.3 I problemi di governance societaria, i maggiori requisiti imposti dalla nuova regolamentazione finanziaria e la necessità di adeguare le dimensioni del settore a un mercato in calo hanno determinato alcuni fenomeni di concentrazione bancaria. Di fronte alle difficoltà d'internazionalizzazione che questi istituti incontrano nel toro sforzo di ingrandirsi, il CESE sottolinea che l'assunzione di rischi è di solito maggiore nei gruppi multinazionali.
5.4. All'altro estremo, sulla:base della relazione del gruppo Liikanen elaborata nel 2012 e per far fronte ai problemi che le banche "troppo grandi per fallire" implicano per le tasche del contribuente, la Commissione ha pubblicato un regolamento sulle misure strutturali volte ad accrescere la resilienza degli istituti di credito dell'UE, un documento in merito al quale il Comitato ha già elaborato un parere[18] che à stato approvato a larga maggioranza.
5.5. In alcuni articoli di questa proposta di regolamento sono previste eccezioni per i requisiti patrimoniali e i diritti di voto nel caso delle banche cooperative e delle casse di risparmio, in quanto esse possiedono una struttura economica e un assetto proprietario molto specifici.
5.6 Secondo il CESE, talune norme relative alla separazione tra banca di credito ordinario e banca d'investimento potrebbero snaturare il sistema di funzionamento delle banche locali di dimensioni minori e la loro presenza quotidiana sul territorio a sostegno dell'economia reale e quindi, potrebbero risultare sproporzionate.
5.7. Questi cambiamenti non sono senza conseguenze per il cittadino europeo: si traducono in una riduzione della capacità esistente (uffici e personale), con un impatto sui finanziamenti a privati e PMI.
5.8. In definitiva, secondo il CESE, se non si prevede una certa flessibilità in merito al rispetto dei nuovi requisiti regolamentari, si corre il rischio che le banche cooperative e le casse di risparmio subiscano una trasformazione del loro assetto proprietario ("bancarización"), con un loro conseguente snaturamento che provocherebbe la perdita per la società di un grande patrimonio sociale costruito lungo i secoli."(Sottolineatura aggiunta).
Su alcune riflessioni conclusive
Appare, dunque, chiaro che il provvedimento in esame altro non è che il primo passo verso la cancellazione del genus delle banche popolari e, più in generale, del credito cooperativo, un genus a tutela costituzionale, essenziale, a giudizio del CESE, per il sistema europeo e per la biodiversità finanziaria, malvisto da Banca d'Italia e dai suoi referenti.
Appare altresì chiaro che il management di queste banche e la loro governance, come di tutto il sistema, mostrano casi di disfunzioni che devono essere corrette con forza e decisioni molto maggiori di quanto siano stati capaci di fare, sino ad ora, i vertici degli istituti di vigilanza.
Appare anche chiaro che la correzione di tali disfunzioni non solo è possibile senza cancellare o snaturare, il genus bancario delle popolari, ma in qualche caso essa è già stata sperimentata.
Appare, infine, chiaro che il sistema generale delle banche popolari è serio e solido e la sua funzione è ancora oggi fondamentale, come tante banche ben gestite e rispettose delle loro articolate finalità a favore non solo dei loro azionisti ma dell'economia e dello sviluppo sociale e culturale del loro territorio, dimostrano.
Ma un passaggio della memoria dell'Avvocatura dello Stato stimola una ulteriore riflessione. E' il passaggio a pag. 36 dove la memoria afferma: "In realtà ciò che emerge dal ricorso è che i ricorrenti avrebbero privilegiato una diversa soluzione al problema della riorganizzazione delle Banche Popolari, preferendo una realtà più conservativa ("esistono numerose vie per migliorare le banche popolari senza snaturarle o sopprimerle" pag. 25 del ricorso). Ma questa valutazione non è ammissibile in sede di vaglio di costituzionalità delle norme, laddove, come nel presente caso, essa si traduce in una scelta motivata e non irragionevole".
In verità, indicando delle soluzioni di alternative i ricorrenti non intendevano esprimere una preferenza per l'una o l'altra soluzione, ma solo far emergere che la distruzione del genus delle banche popolari, che è la non celata intenzione della Banca d'Italia, non è necessaria per raggiungere gli obiettivi migliorativi dichiarati. E, dunque, la questione centrale è la seguente: è lecito violare un complesso di norme costituzionali distruggendo un "genus" costituzionalmente tutelato per perseguire obiettivi che sono perseguibili e, anzi, migliorabili anche senza questa violazione? E perché si persegue, con tanto accanimento, questa violazione, anche raccontando delle fiabe, per non chiamarle con il loro nome di autentiche falsità? Non siamo di fronte ad una vera e propria riforma costituzionale occulta, portata avanti senza autentico dibattito parlamentare grazie al voto di fiducia, da tecnocrati estranei ad ogni visione democratica dell'economia? E da dove deriva il filone di pensiero che ha guidato questi tecnocrati sulla via della violazione della Costituzione del loro Paese? Non siamo in verità di fronte ad un conflitto autenticamente politico e ideologico mascherato in chiave tecnologica che si ricollega a schieramenti internazionali, sul quale i nostri responsabili si pongono in una posizione di servile subalternità?
Viviamo in un mondo dominato dalla grande finanza, che sta alacremente lavorando per un nuovo crac finanziario che sarà ancora molto più doloroso di quello del 2008-2009. Un recente studio di S&P Capital Iq e Snl, i provider di analisi finanziaria di McGrew Hill, "rilancia a otto anni dal crac Lehman un monito allarmante (Fabio Pavesi su Il Sole 24 Ore del 29 novembre 2015). Le 30 (dicesi: trenta) più grandi banche mondiali, le "too big to fail" detengono attività complessive per un valore totale di quasi 60 mila miliardi di dollari, una cifra che vale il 76% dell'intero PIL mondiale. E' questo il mondo che vuole travolgere tutto quello che possa opporsi o solo infastidire questa enorme concentrazione di potere finanziario. La recente vicenda dell'applicazione delle norme europee alle risoluzioni bancarie, così maldestramente e dannosamente condotta dalle nostre autorità economiche, ha dimostrato che siamo ad un punto di svolta straordinario che non può essere affrontato con il solito disinteresse pubblico verso questioni considerate tecniche mentre sono altamente politiche. La situazione è descritta mirabilmente da uno dei più seri studiosi italiani, Donato Masciandaro, con queste parole su Il Sole 24 ore, del 24 dicembre 2015:
"Alla fine di novembre, su queste pagine, si era osservato come la vicenda dell'applicazione italiana delle norme europee sulle risoluzioni bancarie rischiava di rappresentare un classico esempio di quali danni potesse provocare il mix tossico tra burocrazie autoreferenziali a Bruxelles da un lato e governi e parlamenti nazionali distratti dall'altro. Purtroppo l'evoluzione dei fatti ha confermato in pieno che un cattivo disegno di regole tecniche dell'Unione - argomento squisitamente da addetti ai lavori - può divenire la palla di neve da cui può nascere una valanga di danni, soprattutto se applicate in un Paese caratterizzato da alto analfabetismo finanziario e nel contempo da un bassissimo livello di cultura delle istituzioni. I termini della vicenda sono riassumibili nella risposta a quattro quesiti sequenziali. Sul piano dell'analisi economica, le regole europee sugli aiuti di Stato alle banche sono chiare? No. Questa situazione consente alla burocrazia europea ampia discrezionalità? Si. Tale discrezionalità ha finora creato applicazioni distorsive della normativa? Sì. La politica, europea e nazionale, si è finora girata dall'altra parte? Sì. La ragione? Reciproca convenienza delle burocrazie europee e dei governi, comunitari e nazionali….
Dunque, in tempi normali, al politico non conviene dedicare tempo alle regole bancarie; parlamenti e governi non se ne occupano, o se ne occupano male.
Le cose cambiano radicalmente quando i tempi diventano straordinari: se le regole sono disegnate o applicate male, possono esserci danni per i risparmiatori, più o meno diffusi. Al crescere dei danni, effettivi o presunti, di regole o politiche bancarie errate, i costi reputazionali salgono esponenzialmente. In quei momenti il politico ha una doppia reazione: accusare le burocrazie a cui la gestione delle regole sono state delegate di inefficacia ed inefficienza; riavocare a sé il diritto/dovere di gestione delle regole, per migliorarle. E' questa la fase che stiamo vivendo nelle ultime settimane".
Queste esattissime parole valgono anche per l'imbroglio che i nostri tecnocrati stanno realizzando sulla questione delle banche popolari, senza nessun rispetto per le norme costituzionali e per la necessitò di adattare le innovazioni alle caratteristiche ed ai bisogni del nostro Paese. Chi ricorda la dura battaglia che un vero e grande governatore della Banca d'Italia, come Paolo Baffi, combatté contro i partner e le burocrazie europee per assicurare l'ingresso dell'Italia nello SME a condizioni d'ingresso sostenibili per il nostro Paese e chi ricorda quante fatiche e quante amarezze dovette Paolo Baffi sopportare per questa sua battaglia, non può non rimanere colpito nel vedere il servilismo dei nostri di fronte agli ordini che vengono dalle centrali finanziarie internazionali. Ed è di conforto vedere che ultimamente perfino Renzi, nella sua più recente intervista, ha detto: "Ma quel che non mi piace, qui da noi, è una certa subalternità psicologica che ormai trovo surreale" (La Stampa, 4 gennaio 2016).
La nostra Costituzione è un grande baluardo per resistere a ulteriori concentrazioni di potere finanziario, per una economia ed una finanza partecipativa dove c'è posto per i grandi e per i piccoli, per un'economia del libero intraprendere ma nel rispetto di diritti sovraordinati, rispetto a quelli, pur legittimi, della buona finanza, per un'economia, una società, una cultura equilibrate che si oppongono all'appiattimento ed omogeneizzazione tecnocratica per la quale solo le grandi dimensioni meritano rispetto.
Ecco perché non perdono occasione per tentare di scardinarle. Questa, e semplicemente questa, è la partita in gioco nel tentativo in atto di omogeneizzare e banalizzare tutte le nostre strutture bancarie, per sottoporle al pensiero unico di chi pensa che le banche popolari, e tutto il credito cooperativo siano, un'anomalia del sistema. Ed in effetti si tratta di un'anomalia rispetto al loro sistema. Ma il loro sistema è esattamente quello che i padri costituenti non volevano.
Marco Vitale
Milano, 6 gennaio 2016
[1] Questa nota è stata stesa da Marco Vitale per il Gruppo di lavoro su: "Credito cooperativo, Banche popolari, economia reale, Costituzione" utilizzando i contributi via via indicati nel testo. I membri del Gruppo di lavoro sono indicati in allegato. La bozza non è stata ancora esaminata dal Gruppo di lavoro.
[2] Questa banca splendida, solidissima e fortemente radicata nel proprio territorio, sarà avviata ad una crisi gravissima quando cadrà vittima della sindrome della ricerca di dimensioni sempre più grosse, stimolata e sostenuta in questo deleterio processo dall'allora governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio.
[3] The Economist, March 7th-13th 2015, pag. 10 (Global Banks/COCKING UP ALL OVER THE WORLD): "It is hard to avoid the conclusion that global banks are, by the standards of normal firms, dysfunctional that facilitate global trade at low cost and risk. If clients finds these services valuable, the banks will be able to charge enough to offset their huge overheads, and make a decent return for their shareholders on top. If clients do not, the global bank deserves to become just another of finance's failed ideas"
[4] Ed ora questo stimolo a non crescere varrà anche per le popolari che dovranno stare bene attente a non raggiungere il fatidico livello degli 8 miliardi, dopo di che non avranno più la libertà di rimanere una popolare.
[5] Popolari, Banca d'Italia spinge la riforma. "Solo le SpA assicurano un futuro" Il Giorno 18 febbraio 2015
[6] V. Charles, Le libéralisme contre le capitalisme, Librerie Arthème Payard, Paris, 2006, cit. da Alberto Giunto nell'introduzione a Luigi Einaudi, Il paradosso della concorrenza, Rubbettino, 2014.
[7] Questo paragrafo è una rielaborazione, con piccoli interventi di coordinamento, del contributo di Giuseppe Porro dell'Università dell'Insubria, già distribuito in versione integrale.
[9] Ma andrebbe notato, al tempo stesso, che nelle Banche di Credito Cooperativo (Bcc) le attività finanziarie hanno, nello stesso periodo, raggiunto una quota del 30% dell'attivo tangibile, anche in forza delle regole statutarie sulla mutualità prevalente, che impongono di indirizzare almeno la metà degli impieghi verso soci o nella sottoscrizione di titoli di Stato.
[10] Tra le imprese manifatturiere esportatrici italiane, l'89,9% è rappresentato da imprese sotto i 50 addetti. Sul totale delle PMI europee che vendono all'estero i loro prodotti, una su quattro (25,3%) è italiana (dati Eurostat).
[11] Varrebbe la pena notare che limiti all'esercizio del diritto di voto sono previsti, in via permanente e non transitoria, negli statuti di istituti bancari di grandi dimensioni.
[12] Questo paragrafo è una rielaborazione del contributo di Riccardo Cappellin dell'Università di Roma 2, già distribuito in forma integrale
[13] Questo paragrafo è un adattamento del contributo di Claudio Casaletti, che è già stato distribuito in forma completa
[14] Redesigning the Contours of the Future Financial System ("Ridefinire il quadro del futuro sistema finanziario") IMF Staff position note, 16 agopsto 2010 (SPN/10/10)
[15] Banco de Espana: Cooperative and savings banks in Europe: Nature, Challenges and perspectives ("Banche cooperative e casse di risparmio in Europa: natura, sfide e prospettive"), aprile 2011; Associazione europea delle banche cooperative (EACB): EACB answer to the Green Poper on territorial cohesion turning territorial diversity into strengh, ("Risposta dell'EACB al Libro verde sulla coesione territoriale: fare della diversità territoriale un punto di forza"), febbraio 2009; WSBI-ESBG: 200 years of savings banks: a strong and lasting business model for responsible, regional retail banking ("I 200 anni di esistenza delle casse di risparmio; un modello saldo e durevole per un'attività bancaria regionale responsabile"), settembre 2011; CESE: L'economia sociale nell'Unione europea, 2014.
L'ultimo saggio del Prof. Giuseppe Guarino: "Requiem per una Europa mai nata"
Postato da admin [23/09/2015 21:00]
La redazione del BLOG INSIEME pubblica l'ultimo saggio del Prof Giuseppe Guarino sul tema: "Requiem per una Europa mai nata".
E' una lettura quanto mai realistica delle cause che hanno determinato la condizione di sostanziale fallimento del processo di unità europea, basata sul confronto di dati inoppugnabili e di valutazioni di natura giurdiica ineccepibili.
Essenziale la premessa di Guarino: "Esistono due tipologie fondamentali di entità operative che gli uomini possono creare avvalendosi del diritto: gli organismi e le organizzazioni. Gli organismi sono assimilabili all'uomo. Le organizzazioni alle macchine. Negli uomini esiste un organo particolare che coordina tutti gli altri ed esercita la funzione di guida. E' il cervello, il "vertice di ultima istanza". E' inerente alla funzione di guida la libertà di scelta. L'uomo se ne avvale in ogni sua condotta: rispettare il comando, divergerne, violarlo?
L'opzione che il Trattato di Roma doveva compiere aveva ad oggetto le due distinte tipologie. Senza che ce se ne rendesse conto, ha optato per la tipologia della organizzazione."
Sul ruolo e la funzione dell'organismo, decisore politico, il consiglio dei ministri in assenza di un Parlamento dotato di autentici poteri, ha prevalso l'organizzazione, ossia la commissione senza alcun mandato popolare. E sulla commissione ha finito con il prevalere l'amministrazione e, come scrive Guarino: " non c'é "nessuna norma nel Trattato di Roma e conseguenti che dica che l'organizzazione burocratica è alla dipendenze della Commissione.La si è ritenuta una conseguenza implicita. Le direzioni generali hanno il monopolio della titolarità delle funzioni, cui si aggiunge quello dei contenuti. Hanno dunque il monopolio dell'informazione. I contenuti (le direttive, le normative, le proposte e ogni altro atto della Commissione) sono opera degli uffici. "
Un documento che vale la pena di far conoscere e che presto avrà il suo epilogo con le proposte di Guarino per tentare di uscire dall'impasse.
CLICCA SULL'ALLEGATO E PUOI LEGGERE IL SAGGIO DEL PROF. GIUSEPPE GUARINO