Crac Banche. Condannati
Zonin e altri della Popolare di Vicenza. Vergognosa assenza della Regione nel
processo * di Enzo De Biasi
Riabilitata e risarcita Banca d’Italia per la correttezza
dimostrata nella vigilanza
Ai truffati, riconosciuto un 5% di ristoro, con forti dubbi
sulla reale possibilità di incassarli. Potrebbe configurarsi, il risarcimento
del danno per perdita di chance a discapito degli avvocati
La sentenza di condanna a sei anni e
mezzo in primo grado di Gianni Zonin, produttore vitivinicolo di livello
nazionale e presidente della Banca per quasi vent’anni (1996-2015), dominus
intoccabile della città berica, dimostra – per una volta tanto – che la legge
come recita la scritta nei tribunali “è uguale per tutti”.
Il principio è stato appurato, la
speranza è che non si limiti ad essere un evento simbolico. Il risultato
raggiunto va attribuito al merito della Procura della Repubblica, del collegio
giudicante e dell’intero apparato di supporto che, in due anni e mezzo, ha reso
meno amara la distruzione dei risparmi stimata in più di 6 miliardi di euro
appartenente agli oltre 112mila soci. Gran parte di questi rientrano nella
categoria piccoli azionisti. Acclarata è stata pure la responsabilità
individuale in capo all’alta dirigenza che assieme a Zonin, ha commesso reati
in materia di aggiotaggio, ostacolo agli organismi di vigilanza e falso in
prospetto.
Ferma restando la presunzione
d’innocenza valida fino al terzo grado e la minaccia di prescrizione sempre
incombente (scadrà nel 2024), è facile pronosticare che se per caso il verdetto
emesso il 19 marzo venisse sostanzialmente confermato, il già presidente della
BpVi non farà un giorno di carcere, come capita quasi sempre alla classe
dirigente in Italia. Tuttalpiù, egli sarà affidato ai servizi sociali per
essere “rieducato”, già successo con Silvio Berlusconi. D’altra parte, tranne
qualche sprazzo di autocritica fatta nei media dalla presidente di
Confindustria di Treviso riferentesi anche a Veneto Banca, l’aria che si
respira tra gli imprenditori (loro associazioni) non è né di biasimo radicale,
né di disapprovazione palese, quanto piuttosto una malcelata sopportazione per
“qualche errore fatto” che, però, ha spazzato via un sistema di erogazione del
credito ritenuto più attento alle loro esigenze e particolarità aziendali.
Sicuramente la visione di medio periodo,
ovvero la lungimiranza di guardare oltre i propri interessi di bottega, davvero
non faceva (fa?) parte del DNA costitutivo dell’imprenditoria locale,
soprattutto quella indicata a governare soggetti finanziari importanti come il
caso Vicenza testimonia. Infatti, la direttiva UE del 2013 diretta a rafforzare
la vigilanza prudenziale su banche e gruppi bancari venne recepita tardivamente
(more solito) e dopo un’infrazione comminata all’Italia. L’operatività era
stata affidata al decreto-legge nr. 3/2015, che dava 18 mesi di tempo per
trasformare le popolari con un attivo di bilancio di più di 8 miliardi di euro
in società di capitali, tra queste BpVi. Tale disegno fu ostinatamente contrastato
con ogni mezzo. Una netta contrarietà nell’adeguarsi alle regole sollecitate
venne attuata, nello specifico, dai vertici e collaboratori della banca berica.
Lo scopo di tanta ostinazione consisteva nel mantenere usque ad mortem, (fino
alla morte), l’involucro della banca cooperativa, basata e sul principio di
mutualità (di fine ‘800) dove il voto è capitario (ogni socio un voto),
indipendentemente dal numero di azioni possedute, regolata da procedure
semplificate e sotto il comando di un sol uomo: Gianni Zonin. Di contro, il
principio di realtà veniva clamorosamente contraddetto: la grandezza oramai
acquisita da anni e il giro d’affari in essere della Popolare di Vicenza la
collocavano in ben altra tipologia d’istituto creditizio, con ben altre modalità
d’esercizio del potere. Invece no. La strategia da perseguire era sempre la
stessa, non pagare dazio alla necessaria trasparenza e non osservare nella
gestione del risparmio depositato i dettami della libera circolazione dei
capitali e di azioni contendibili nel mercato quotato. Ancora una volta in
Veneto, è prevalsa l’idea che “piccolo è bello” specie se fa le cose “in
grande”, ma di nascosto (tra di noi e solo per noi soci). Ciò che contava (è
stato fruttuoso?), non è il rispetto dei criteri di correttezza, diligenza,
informazione esaustiva; quanto piuttosto quella di poter partecipare alla
distribuzione della ricchezza prodotta dalla “cooperativa mutualistica e
sociale”. Nel 2016, andato a vuoto il tentativo di salvataggio di Atlantia,
suona il fischio di fine partita per chi aveva barato alle regole del gioco,
ovvero i vertici della Banca Popolare di Vicenza. Il valore nominale
dell’azione crolla da 62,5 euro a 10 centesimi e come spesso succede a pagare
il prezzo più alto, è la folta platea di piccoli azionisti ed imprenditori (il
cosiddetto parco buoi) tutti traditi nella fiducia, nei patrimoni svaporati e
nella serenità individuale e famigliare irrimediabilmente sfumata. Ecco
la sentenza, nero su bianco, scolpisce a futura memoria chi sono stati i colpevoli
del disastro finanziario tutti personaggi di puro conio veneto.
Il patatrac poteva essere evitato? Certo
che sì.
Sul “sistema” di protezione verso Zonin,
il magistrato Cecilia Carreri in un suo recente libro offre uno spaccato del
clima vigente all’epoca negli uffici giudiziari vicentini.
“Nel 2001 la procura di Vicenza aprì un
fascicolo a carico di Zonin e altri, scaturito da alcune segnalazioni e da
un’ispezione di Bankitalia. Le accuse andavano dal falso in bilancio alla
truffa. «Da quelle ispezioni, perizie e memoriali – si legge nel libro –
emergevano fatti molto gravi, operazioni e finanziamenti decisi da Gianni Zonin
in palese conflitto di interesse tra le sue aziende private e la Banca usata
come cassaforte personale. Balzava evidente l’assoluta mancanza di controlli
istituzionali su quella gestione: un collegio sindacale completamente
asservito, un Cda che non faceva che recepire le decisioni di
quell’imprenditore, padrone incontrastato della banca. Nessuno si opponeva a
Zonin, nessuno osava avanzare critiche, contestazioni». A colpirla, è «la
clamorosa mancanza, da parte della procura, di sequestri di beni e patrimoni a
garanzia delle parti lese, di ordinanze cautelari di arresto e carcerazione».
Tutti gli indagati sono rimasti «a piede libero e hanno potuto tranquillamente
inquinare le prove o fuggire all’estero, far sparire il loro patrimonio
personale. Mai vista una cosa simile» (Corriere del Veneto, 21 giugno 2017).
Cambiati i capi della procura, chi
doveva già essere indagato a partire dal 2001 è finalmente messo in stato
d’accusa confermando oggi lo stesso ufficio, nel corso delle 116 udienze e dei
quasi duecento impresari sentiti, la responsabilità individuale denunciata 20
anni prima. Al di là della procura dormiente, gli amministratori pubblici
in primis i sindaci succedetesi nella carica al Comune di Vicenza, l’onorevole
Achille Variati, ad esempio, a seguire i parlamentari e consiglieri regionali
eletti in provincia di Vicenza negli ultimi due decenni e per finire i
direttori delle redazioni dei giornali, radio e televisioni di Vicenza e
regionali; dal e del loro territorio cosa vedevano, sentivano e sapevano ?
Insomma, tutti muti, sordi e ciechi.
Dove sta la differenza in tema di omertà
tra noi ed il Sud Italia?
A riprova di quanto sopra indicato, nel
marzo 2008 l’Associazione dei Consumatori (Adusbef) retta dall’avvocato Fulvio
Cavallari, deposita in procura un esposto-denuncia contro il valore delle
azioni che appare “troppo alto” per essere vero. La segnalazione è archiviata.
In questo scenario di autismo
istituzionale ed informativo, le centinaia di migliaia di azzerati veneti si
sarebbero aspettati, dopo due Commissioni d’inchiesta sul crac delle banche e
un ordine del giorno unanime del Consiglio Regionale, almeno la costituzione di
parte civile della Regione del Veneto contro Zonin e soci per ridare un po’ di
dignità a chi ha perso tutto. Che ha fatto Luca Zaia, legale rappresentante
dell’ente? Ha presentato l’istanza di costituzione in ritardo rispetto ai tempi
stabiliti dalla procura, ma come ha motivato l’avvocatura regionale ciò è
avvenuto per una “non condivisibile valutazione delle norme processuali”,
poffarbacco! Non potendo dire che si poteva fare prima dello spirare del
termine codificato a dicembre 2018, c’è sempre il legale di turno chiamato a
giustificare nella forma ciò che manca nella sostanza; il coraggio di “metterci
la faccia”.
La vergognosa assenza della Regione del
Veneto nel processo contro la Popolare di Vicenza non è l’unico episodio in cui
il presidente della Regione dovendo scegliere con chi stare, tra il potente di
turno oppure i cittadini danneggiati, di fatto ha optato per la parte ritenuta
più forte. Ubi commoda ibi incommoda, dicevano i latini. Ciò
significa, che ogni posizione (carica pubblica) accanto a vantaggi ha anche
svantaggi, occorre scegliere, non scantonare. Nel maxiprocesso di affiliati
alla camorra, i cosiddetti “casalesi di Eraclea” partito nell’aula bunker di
Mestre il 9 gennaio scorso, nessun avvocato della Regione ha potuto presentarsi
dato che la giunta ne aveva discusso, solamente, il giorno prima. Jacopo Berti
dei 5 stelle stigmatizzando l’avvenimento ha avuto modo di ribadire che “Prima
i Veneti! E’ lo slogan di Zaia, tranne quando si tratta di chiedere i danni nei
tribunali per conto dei cittadini a chi fa scempio della legalità e dei soldi
dei veneti” (Il fatto quotidiano, 09.01 2020).
Dalla sua Zaia, può sempre affermare che
alle ultime elezioni è stato preferito da quasi 4 veneti su 5, ottimo risultato
per lui, mentre per la Regione si vedrà al termine del terzo quinquennio con a
capo un leader leghista. La questione qui è differente. Il consenso vale di più
(di meno?) o perlomeno tanto quanto la difesa della legalità laddove
questa è infranta (gestione del risparmio tradito/espansione della camorra),
rientrando a pieno titolo tra i doveri inderogabili di chi è al vertice di
un’istituzione esponenziale degli interessi dei Veneti? L’interrogativo merita
una risposta, dato che la procura di Vicenza ha, nel frattempo, avviato una seconda
inchiesta ancora in fase preliminare, per l’ipotesi di reato di bancarotta
avverso il management della Popolare di Vicenza.
Di tutt’altra qualità ed incisività è
stata la presenza nel processo di Banca d’Italia, che ha potuto dimostrare la
correttezza nell’azione di vigilanza su BpVi e che potrà, forse, ottenere un
risarcimento di 601.017,39 euro. Nella comunicazione preconfezionata ad uso dei
soliti amplificatori presenti in abbondanza nei media, la telenovela raccontata
agli elettori nella primavera 2018 ed al popolo dei truffati era che lo tsunami
abbattutosi su BpVi era dovuto, non alla mala gestio degli amministratori, quanto
piuttosto dall’assenza di controllo di “quelli di Roma”. Già,
l’architrave reggente l’immaginario collettivo creato ad hoc soprattutto dalla
Lega è dopo la sentenza di Vicenza, miseramente collassato. Trattasi,
ovviamente, di annotazione a margine per chi vuole riflettere. Ciò non
riguarda, il movimento capitanato da Salvini che nel triennio 2018/2019/2020 ha
fatto filotto nelle tre consultazioni succedetesi per quantità di voti e numero
di eletti e che, probabilmente, continuerà a sfornare fasulla propaganda da
consumarsi in occasione della prossima tornata elettorale. Bravi!
La ricaduta della condanna dei reati
ascritti ai quattro imputati dichiarati colpevoli comporta la confisca dei loro
beni mobili ed immobili per una “somma equivalente” fino a 963milioni di euro,
quasi un miliardo. L’eventuale disponibilità per risarcire le parti civili
costituitesi in causa, potrà esserci a sentenza definitiva. Quello che va
subito chiarito, è che il provvedimento di esproprio della ricchezza accumulata
da Zonin e soci va incamerata, in prima battuta, dallo Stato e non c’è – al
momento – alcuna certezza né dei tempi né dei modi. L’esigibilità della cifra
indicata dalla procura resterà, probabilmente, sulla carta. Per altro aspetto,
la stima approssimativa che viene fatta (da fonti attendibili) sul valore dei
patrimoni concretamente aggredibili non supera i 60/65 milioni di euro.
L’affannosa corsa già aperta tra i legali per depositare atti esecutivi per
“arrivare primi” in questa operazione rischia di essere un’inutile perdita di
tempo. Inoltre, essendo quasi 8.000 (7.760) le parti lese interessate ed avendo
la procura stabilito che il massimo concedibile è il 5% fino ad un massimo di
20.000 euro “per ciascuna parte”, c’è poco da stare allegri. La prima
osservazione è che la percentuale fissata è al di sotto di ben 10 punti
percentuali rispetto a quanto la banca aveva a suo tempo offerto e già
liquidato nel 2017, senza peraltro alcun limite al capitale bruciato. In
effetti, avendo il giudice penale ampliato il perimetro della risarcibilità
fino ad arrivare a chi possedeva un patrimonio mobiliare fino a 400.000 euro i
potenziali richiedenti soddisfatti, ammesso e non concesso che da qualche parte
i soldi fuoriescano, non sono certo tutti quelli in lista d’attesa. Va da sé
che la gran parte dei truffati, non intascherà un euro. Come è stato detto in
tante interviste rese soprattutto dai legali per i mass-media è “stata una
vittoria di principio”; potremo dire simbolica, ma senza rilevanti riscontri
pratici. Resterà negli annali di giustizia, come un prezioso precedente di
condanna inflitta a chi (vertici BpVi) non ha seguito criteri trasparenti nel
vendere prodotti finanziari alla propria clientela, cosiddette “operazioni
baciate” In questa situazione il FIR, diventa l’unica ancora di salvezza. Il
truffato dovrà celermente rispondere, se fa parte del 52% di domande carenti di
documentazione (Consap 15.03.2021), se ha qualche causa giudiziaria in corso.
Spetterà, poi, alla prudente ponderazione della Commissione Tecnica valutare il
5% dichiarato in sentenza in relazione all’elemosina che gli spetta in base
alla 145/2018, vale a dire se detta % è da conteggiare o non conteggiare in
prima battuta od invece, la pratica viene sospesa in attesa di avere il
giudicato definitivo.
Se il campo rimarrà secco e non
innaffiato da acqua, ovvero i risarcimenti, si apre un altro scenario afferente
alla qualità del rapporto instaurato tra il cliente e il proprio avvocato di
fiducia.
Non a caso in un articolo
precedente, Crac banche. I truffati, buoni clienti per il business
di avvocati ed associazioni valutabile in 87 milioni di euro – Bellunopress –
Dolomiti , erano state segnalate –
tra le altre – le criticità derivanti dall’essersi costituiti avanti al giudice
competente per migliaia di casi scaturenti, in buona sostanza, dalla stessa
matrice.
In proposito, il comportamento più
consono è stato quello tenuto dell’Associazione Ezzelino III da Onara che – a
suo tempo e tramite il penalista professor Rodolfo Bettiol – ha deciso di
presentare una unica costituzione impegnandosi tutti gli aderenti al sodalizio
(circa 700 persone) nel contribuire all’onorario del valente professionista. Un
modus operandi sensato, quel che si dice una “causa-pilota”. Ciascun truffato e
ciascuna associazione ha fatto le sue scelte, come ad ognuno è parso più
opportuno. Qui non si vuole affatto dubitare né della buona fede di alcun
avvocato coinvolto nel processo di Vicenza né tantomeno che egli abbia agito se
non nel modo più stringente richiesto dal codice deontologico dell’ordinamento
forense. Per mera coincidenza temporale, allo stesso tempo in cui
venivano instaurati i contratti di patrocinio per le cause da attivarsi nelle
diverse sedi, era altrettanto possibile e aderire all’offerta di transazione
pubblica con rinuncia a qualsiasi causa giudiziale; oppure era fattibile la
presentazione di un ricorso avanti all’Arbitro delle Controversie Finanziarie
(ACF) per arrivare alla composizione della controversia con la banca,
riservandosi di esercitare successivamente l’opzione avanti al giudice
ordinario in caso di risultato insoddisfacente.
I truffati che hanno accolto l’invito
della OTP promosso da BpVi, così come quelli che sono andati da ACF hanno già
intascato i soldi e di ciò questa testata ha dato più volte notizia.
Sta oggi nelle facoltà del truffato
analizzare e valutare se in sede di sottoscrizione del contratto di prestazione
intellettuale fatta a suo tempo, tutte queste informazioni gli erano state
doviziosamente e tempestivamente fornite. Se quindi ha accettato e
siglato, egli si è assunto il rischio implicito in qualsiasi causa che si può
essere anche soccombenti, al di là della diligenza del professionista. Inoltre,
e per chiarezza, se la motivazione principale era quella di vedere alla sbarra
i presunti responsabili per una questione “di principio, di verità e di
giustizia”, egli ha conferito il suo mandato sciente e cosciente. Se così non
è, o le modalità/alternative non erano state chiarite per svariate ragioni, da
tempo la dottrina e la giurisprudenza hanno elaborato Il risarcimento del danno
da perdita di chance applicabile anche al legale prescelto. L’ipotesi del
risarcimento è configurabile affiancando i due criteri oggi più in vigore,
quello della ragionevole certezza e quello della ragionevole probabilità. In
ogni caso, è opportuno che prima di continuare in ulteriori step giudiziali,
l’azzerato abbia un franco colloquio con chi lo sta tutelando per fugare ogni
dubbio trovando, possibilmente, un accordo soddisfacente per entrambe le parti.
28 marzo
2021
Enzo
De Biasi